ideazione Roberto Scappin, Paola Vannoni
produzione quotidianacom, Kronoteatro
in collaborazione con Sala Teatro Poggio Torriana
grazie a Santarcangelo dei Teatri
con il sostegno di Regione Emilia Romagna
Da dove
Prendendo spunto dal Regio decreto del 1926 – che individuava il “Ballo come apologia del vizio” -, indagheremo sulle forme di espressione che il fascismo considerava “impudiche”, “scandalose”, e di come il corpo vivente dell’antifascismo abbia continuato comunque a danzare, nel corpo e nella mente.
Nel 1926 furono ispezionate 338 sale da ballo e ne furono chiuse per motivi di moralità 256, quasi il 76%.
Si registrarono azioni di polizia a «carattere preventivo e repressivo»: ammonizioni, diffide e chiusure di locali volte a contrastare la diffusione di danze “esotiche” e a proteggere la moralità pubblica e i giovani da “fenomeni nevrotici”, da “vizi procaci”.
Note o argomentazioni
Con un balzo “arrischiante” definiremo traiettorie, i sussulti, le dinamiche e le figurazioni danzate a complemento e completamento di questa nuova composizione, che indaga lo sconcerto provocato da ogni respiro totalitarista autoritario.
Il “verbo del corpo” ci predispone alla creazione di ortografie non lineari, plasma la scrittura, e anche il movimento; declina un andamento riflessivo, a tratti sconcertante a tratti comico.
Il linguaggio oscilla tra il prevedibile e l’inusitato, tra il diligente e l’ineffabile, tra lo scrupoloso e il mirabile.
Le lingue dei codici e dei dati si mescolano con il parlato e con il movimento, dando vita a orazioni che esplorano le complessità.
L’antifascismo è un corpo vivente, non un cadavere mummificato. Antifascismo è realizzare ciò che è scritto nella Costituzione. Non è una “battaglia” retrograda, bensì attualissima.
L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.
Un tempo accaduto
Il Regio decreto del 6 novembre 1926 fa esplicito riferimento al rispetto del “buon costume”, precisando che “senza licenza dell’autorità di pubblica sicurezza non si possono dare in luogo pubblico o aperto al pubblico feste da ballo”, si stabilisce che “sono vietati gli spettacoli o trattenimenti pubblici che possono dar luogo a turbamenti dell’ordine pubblico o siano contrari alla morale o al buon costume”.
Il regime si servirà dell’articolo relativo alle licenze per proibire ogni tipo di festa che
non sia promossa direttamente dagli organi legati al partito fascista. Le autorità politiche e culturali oppongono resistenza ai nuovi ritmi, allo swing dell’arte d’avanguardia, al «guarda come dondolo» dell’emancipazione femminile, delle filosofie radicali; l’Italia fascista proclamava inviolabili i confini delle proprie tradizioni.
Nel caso del jazz, che futuristi e passatisti (da Pietro Mascagni a Filippo Tommaso Marinetti) chiamavano «negroide», «scimmiesco», ma anche «ebraico», si trattava di difendere lo strapaese musicale e canterino (Funiculì funiculà, La società de li magnaccioni, O Lola, Sciur padrun da li beli braghi bianchi, Sant’Antonio allu desertu) da quello che oggi, passato invano un intero secolo, gli eredi neo (ma anche ultra) fascistoidi
del fascismo chiamerebbero forse «globalismo pop».