Entro in questo nuovo capitolo della Trilogia sul Vedersi vivere dei Quotidianacom dopo un viaggio esplorativo di oltre quindici anni lungo le produzioni della compagnia riminese, compagna di tante ricognizioni teatrali.
In un presente sovradigitalizzato, che vanta tra le sue piaghe irrinunciabili lo smartphone, rimbalzando schiere di nomofobici tra le pareti di casa nello scrolling compulsivo, dedicare un’ora al teatro è un gesto rivoluzionario, anzi reazionario. In reazione alla gamizzazione del sociale e dell’esistenziale, al presente iperconnesso e sconnesso dall’intima natura umana. In reazione al labirinto psichedelico dei social, ai seguaci sconosciuti che ci parlano e si trasmettono come umani essendo invece bot, simulatori di attività umane con sembianze umane e disumana perseveranza. Oggi il reazionario è un rivoluzionario quasi-anarchico (non fotogenico). Il paradosso è involuto ma s’impone.
Sono entrato nella penombra della cripta bolognese delle Moline – angusta scena di tanti eccelsi lavori – per una replica che si annuncia al cospetto di un piccolo cane in ceramica, stagliato nel fascio luminoso a centro palco, cono verticale, raggio cosmico che condurrà il pubblico fino all’infosfera iperurania.
L’attesa è mossa da ombre attorno al proscenio, una colonna di fumo sale dal piano di legno che ospita il piccolo Carlino, affiancato da due sedie solenni nel loro classicismo. In fondo alla scena altre due sedie vuote danno all’insieme una vaga aria liturgica pur secolarizzata. Intorno respira il buio, vibrano le presenze di quattro figure che presto affiorano dal raggio rosso che annuncia l’inizio. È il verbo, certamente all’origine dell’azione di questa eloquente compagnia. Subito è generato il sentimento di surrealtà e leggerezza assieme, di cui Roberto Scappin e Paola Vannoni sono artefici esperti e interpreti naturali di sé stessi.
Questo nuovo capitolo si intitola Algoritmo d’autore, fonde l’anima del classico pirandelliano per antonomasia con un testo contemporaneo che procede lungo la direttrice del surrealismo tragicomico, da una compagnia che ha nel nome la materia prima da cui attinge la propria scrittura. I personaggi in scena sono quattro (più due virtuali, vedremo, per arrivare ai sei icastici), ma – escluso il cane Ritmo – le anime che aleggiano sopra la scena e oltre, nell’apogeo dell’ubiqua websfera, sono infinite e presto sapremo che proprio i due personaggi principali – i monosillabici Al e Go – sapranno evocare anime di voci letterarie e filosofiche del passato, tra le note di Magic Moments e dei Doors.
La forza dell’incipit è nel dichiarare il paradosso dell’irrappresentabilità e riuscire poi a recitarlo; il dramma della finzione che si fa funzione logaritmica, insolubile qui come lo fu per Pirandello nell’opera dei famosi sei personaggi. La finzione è dichiarata come unica realtà presente e poi scartata, perché “gli attori non ce l’hanno un dramma” viene enunciato fin dalle prime battute. Qui il sipario si potrebbe chiudere, invece si chiude solo – e temporaneamente – la quarta parete e si apre la quinta in alto, lanciando un articolato intreccio drammaturgico oltre lo spazio fisico del teatro, seguendo un infinito campionario di database che si moltiplicano nell’elaborazione logaritmica. L’abbaio improvviso del cane Ritmo punteggia la stesura, riconduce a una quotidianità straziata da versi canini da ogni dove; per fortuna qui un obolo ceduto al dorso-salvadanaio della bestiola ristabilisce una temporanea pace. Coraggio dei Quotidiana anche in questo caso, a farsi beffe del simulacro canino, considerando la sacralità ormai conferita al pet.
Dopo alcuni scambi sommessi, viene invocata con nonchalance l’IA e lei entra vocalmente, con timbrica suadente, è una voce femminile; si avvia il sistema drammaturgico che questa volta spiazza i fan storici della compagnia abituati a seguirne i dialoghi taglienti e comici solo nell’intimo delle due sagome sul palco e pochi orpelli, per lo più vegetali. L’IA diventa la protagonista da questo momento, l’autrice; si presenta come un sistema di elaborazione dati di nome Nicole, si entra nell’ibridazione teatrale, nel gioco delle parti e dei copioni multipli fino all’umanizzazione della stessa AI, in ultimo sessualmente differenziata in un uomo e una donna, i Romano e Cristina che stagnano immobili a fondo scena.
Se il cane rassicura sempre, specie se di piccola taglia come questo Carlino di bianco smalto, l’oracolo generativo Nicole produce l’effetto duplice di paura ed entusiasmo, e di questo dualismo i Quotidiana rinviano un’ideale sintesi di smarrita ironia, che li porta a dialoghi degenerativi e via via bizzarri con la macchina-autrice, la quale non deluderà il pubblico risultando spesso cordiale e paziente nella ricerca del dramma e dei suoi attori. Attori che restano sul baratro dell’impasse recitativo con una maestria ancora una volta giocata sulla sottrazione del virtuosismo, sulla dimissione volontaria, lo sconcerto dichiarato, le posture di una strenua resistenza al dogma digitale. Sarà Nicole poco dopo a battezzare Al e Go come due algoritmi al suo servizio e questo segna il punto di torsione drammaturgica. I due navigati attori, autori di svariate tragicommedie autorevoli e premiate, si concedono per la prima volta – anche concretamente, essendo il loro processo creativo basato sulla presa diretta di dialoghi estemporanei – a un dispositivo di IA, il quale si umanizza, prende voce, elabora domande e risposte, in senso letterale crea. Siamo nel reale che depista la realtà teatrale? L’evento IA interrompe l’avvento teatrale portando in scena un bot parlante che interagisce con due esseri umani, in un’alternanza sofisticata di scoramenti, epifanie stilistiche e mini-sketch e orpelli colorati alla Quotidiana. Probabilmente è questo l’inizio di una débâcle inconclusa, è l’inizio di una lunghissima disfatta, di infinita durata.
Del tutto a loro agio in tuta colorata e scarpe da trekking, i due palesati algoritmi riescono attraverso un gioco di specchi, di occhiali modello 3D e pose icastiche, a esprimere – anche in termini filosofici cavalcando i frasari di Camus e Cioran – non soltanto un dramma teatrale quanto il vero dramma consustanziale al teatro, il dramma dell’attore solo davanti a se stesso, della finzione che gli grava addosso e lo annienta come individuo, lo pretende inautentico, abile al suo oblio. Il messaggio che io faccio reazionario è che la macchina è sì generativa di contenuti, di copioni e anche di personaggi, ma è incapace di creare un sentimento d’assenza, la frattura dell’io immanente all’uomo, la mancanza che lo completa; non riesce cioè a creare l’assurdo tanto essenziale a Camus (voce alta tra le voci alte del lavoro), il vuoto come bisogno intimo dell’artista, senza il quale lo stesso artista non sarebbe tale; Nicole, e poi il suo omologo maschile Giovanni (sicuramente più performativo ma grottesco fino al ridicolo), non possono che replicare modelli seriali, accorpare milioni di dati prestabiliti per dedurne una media, condurre inesorabilmente all’artificialità e al “rassicurante pregiudiziale”, alla matematica algoritmica della “risposta al problema”. Quando il problema è invece riuscire a starci dentro e problematizzarlo poeticamente, renderlo un’opportunità creativa inedita, una passione bianca, spaventosamente fertile.
Le due figure si rivelano per le entità che sono, due algoritmi che unitamente al cagnetto compongono coi loro nomi il lemma più inflazionato del momento, ma non risolvono il dilemma, restano nell’oppressione dell’irrappresentabile e lì costruiscono lo spettacolo: lo spettacolo della follia digitale, che inneggia più volte al manicomio, per l’effetto psicotropo incontenibile che produce l’ossessione del vuoto riferito al senso. L’effetto comico (manicomico), sottile e meta-filosofico, sortisce da qui, dal paradosso che ridicolizza l’ontologia professionale dell’attore sotto i suoi stessi riflettori.
Il vuoto, concetto caro ai Quotidiana.com viene suggestionato, evocato e forse invocato in questo lavoro in piena (in)coscienza. In questa rarefazione di senso e di etica professionale – egregiamente simulata dai due attori reali – Al e Go da iniziali personaggi di se stessi si sono fatti creature algoritmiche, ovvero due attori abitati dall’IA e da questa condotti a recitare; due umani digitali, due re-attori alle proposte drammaturgiche di Nicole prima e Giovanni poi; loro si affidano all’IA cercando di dar corso all’opera, ma nonostante intervengano voci autorevoli dal passato e gli stessi protagonisti del dramma pirandelliano appaiano nelle voci originali di grandi interpreti (vedi il Romolo Valli del Padre), alla fine l’opera – che nei Quotidiana ha sempre attinto al surreale-quotidiano – deborda nel reale-virtuale, dal momento che in scena si consuma una commedia sentimentale tra bot e algoritmi e nel contempo una dramedy esistenziale tra le coscienze dei due attori e l’incoscienza generativa dell’AI. Un magnifico irrappresentabile spettacolo, a riprova delle abilità contorsionistiche e mentali dei veri autori alle prese con IA e quanto resta del teatro contemporaneo di ricerca.
L’effetto comico è come si diceva raggiunto, domina sul dramma, per quanto in questa prova ci si immerga in una comicità più delicata, chiaroscurale, contrastata probabilmente da intime urgenze espressive dei veri autori davanti all’imponenza e alla supponenza dei nuovi strumenti assurti a generatori creativi.
Ma il teatro prevede il dubbio, la frattura, l’errore: resterà umano, mai meno che umano, nonostante le Nicole e i Giovanni, questo uno degli assunti taciti del lavoro, tra le righe, tra un’inclinazione dello sguardo e un’esitazione labiale. Il teatro accade solo in senso umano, l’immissione di IA lo corrompe forse, ma non lo salva dalla sua aspirazione all’oblio, all’errare dello spirito e del corpo, alla sospensione di senso e dunque all’inevitabile sempre fallibile ricerca di assoluto.
Questo intimamente complesso lavoro di Scappin e Vannoni, porta in scena non solo l’intelligenza artificiale che prende slanci e voci diverse, ma anche la titubanza collettiva di fronte all’avanzata degli Al e dei GO procreati da migliaia di schiavi del web (i cosiddetti pickers) intenti a inserire milioni di dati nelle piattaforme.
Altro tema è lo smarrimento dell’arte e della mente, portandoci i Quotidiana, senza enfasi, pianamente, dentro una drammaturgia manicomiale e psicotropa dove, come nell’opera pirandelliana, la pazzia si integra con la tecnica teatrale, inneggiando al manicomio, al suicidio sotto diverse luci e declinazioni.
Cristallizzati a fondo scena, mesmerizzati, incapaci di vita, ritroviamo Cristina e Romano, le due figure sedute immobili come androidi spenti al margine del palco. Si attiveranno solo quando i due sistemi generativi li incarneranno dando corso a un finale lirico e nel contempo ilare.
Nel parossismo stroboscopico di un ballo disarticolato di Al e Go, nell’alternanza schizofrenica tra il classicismo e il virtuale vociferante, mentre il cane Ritmo abbaia e incassa monetine e nasi clowneschi vanno e vengono sui volti esterrefatti dei due algoritmi umani, lo spettatore è confortato nella sua intima nascosta, personale pazzia. Anche questo è un elemento drammaturgico che segna il passo del lavoro, come tentativo ben riuscito di rappresentare la follia collettiva, così integrata nelle cellule dei nostri giorni da passare inosservata, quasi rassicurante. Quante persone vediamo urlare per strada e fermarsi solo per poi riprendere una volta girato l’angolo della nostra attenzione, l’angolo dietro cui l’indifferenza o l’abitudine ormai ci trovano familiari al generale impazzimento, in una progressiva deriva della socialità fuori dai social e nell’irrefrenabile sviluppo di una psichiatria “per tutti”, a buon mercato, favorita da una medicina di base disinibita verso lo psicofarmaco.
Quando al finale i due algoritmi personificati chiedono a Nicole e Giovanni di apparire, le due sagome ibernate in fondo alla scena si animano, parlano sommesse, presto smarrite nella quotidianità urbana, confuse tra acquisti di zucchine al supermercato e spericolate valutazioni esistenziali: “Stiamo minando le basi della civiltà occidentale, il teatro”. Si scherniscono poi teneramente lanciandosi l’appellativo pirandelliano: “Fantoccia”, “Fantoccio”, poi è il silenzio, fino a quando liberatorio giunge il canto della donna: “E’ sera/se si spengono ormai le vetrine/un poco alla volta/se la gente cammina poi svolta ad ogni angolo in fretta/allora vuol dire vuol dire che è sera (…)”.
Sul brano che rievoca nostalgie alla Nicola Di Bari, si spengono le luci ma nel buio la macchina continua a processare, a osservarci, a guidarci verso la nuova era evolutiva. Fuori dal teatro non avremo scampo, un comune destino di passività sorvegliata ci attende.
Sono riuscito a fare qualche imprudente domanda a Roberto Scappin colto nella foresteria del teatro.
Ti trovi in assonanza con una progressiva voglia di assenza a scena aperta?
R.S: Certo, non vorrei più essere io la forma disarticolata, critica e sempre vigile dettata dal corpo, che si spegne e riaccende in continuazione. Il significato condanna il significante al sacrificio, quando vorrebbe sempre cogliere l’occasione dell’oblio e della dimenticanza.”
Quando ti senti più rappresentato a te stesso come attore?
R.S: Quando intimamente si rinuncia al “dovere” insensato dell’esibizione, al “dovere” variopinto del virtuosismo, al “dovere” protervo della tecnica; quando si percepisce che non c’è nulla che valga la pena di rincorrere e replicare al solo scopo di gratificare illusoriamente il pubblico, testimone di chissà quale “evento”. Da tempo credo sia ora di farla finita con il giudizio del pubblico, che disprezza o ammira, farla finita con la sua passiva indifferenza, con il suo desiderio di scrutare, di assistere, di commentare. Non dovrebbe mai essere la “presenza” carnale (fisica?) a innestare e suggerire allo spettatore il discorso. Il pubblico deve scomparire, come da tempo è ormai scomparsa la rappresentazione, sempre rappresa intorno al contorno, intorno all’afflizione disperata e isterica del tempo passato. Fantocci, li chiamava Pirandello, si riferiva agli attori che come marionette sfaccendavano sulla scena. “Fantocci” possiamo ancora chiamarli oggi, nella speranza che un giorno, finalmente, il pubblico torni a urlare: “Manicomio! Manicomio!”, definendo così lo spartiacque definitivo tra tragedia e commedia, il discrimine tra reale e irreale, tra verità e finzione, tra umano e post-umano.
Lo spettacolo è infinito.
(Michele Montanari, pangea.news, 28 gennaio 2025)
Algoritmo d’autore
Dopo A casa bambola!, ispirato a Casa di bambola di Henrik Ibsen, la compagnia quotidiana.com – ovvero Paola Vannoni e Roberto Scappin – porta in scena il secondo capitolo del suo progetto 7 note in cerca d’autore (Trilogia sul vedersi vivere), incentrato sulla molto libera riscrittura dei classici della storia del teatro.
Punto di partenza di questa nuova tappa di ricerca artistica è un testo capitale nella drammaturgia novecentesca quale Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, non a caso accolto all’ormai leggendaria prima del 9 maggio 1921 al Teatro Valli di Roma, con urla indignate – «Manicomio! Manicomio!». E proprio quell’espressione indignata è una sorta di leitmotiv del lavoro di Vannoni-Scappin che del dramma pirandelliano mirano ad aggiornare la carica innovativa, sostituendo ai personaggi abbandonati dal proprio insensibile autore due creature generate dall’Intelligenza Artificiale, esito della combinazione – arbitraria? Ovvero aderente a una qualche poetica, benché tutt’altro che tradizionale, come fu per quella sviluppata da Pirandello? – di algoritmi.
Ecco, dunque, che in scena agiscono AL e GO, rispettivamente Scappin e Vannoni, l’uno di fronte all’altro, separati da “Nicole”, l’AI rappresentata da un fascio luminoso e ovviamente dotata di voce suadente. Le due creature – come i personaggi del dramma pirandelliano niente affatto passivi bensì dotati di passioni, riflessioni, rivendicazioni molto personali – tentano di affermare la propria personalità e, soprattutto, la propria capacità di autodeterminazione, instaurando una sorta di dialogo/sfida con l’AI, cui è implicitamente attribuito il duplice ruolo dell’autore ma anche del capocomico, entrambi sostanzialmente incapaci di flettere la propria poetica alle legittime rimostranze dei personaggi, desiderosi di essere finalmente il proprio vero sé, ossia, seguendo la nota dicotomia vita/forma introdotta dal filosofo Adriano Tilgher per sintetizzare il pensiero pirandelliano, di liberarsi dalla “forma” in cui la loro vera identità è stata ingabbiata.
Vannoni e Scappin traducono tutto questo – l’aspirazione a essere pienamente quello che si è, lasciandosi andare al fertile e appagante flusso della “vita” – nel loro particolare vocabolario scenico, caratterizzato da una quieta ma ispida surrealtà, capace di sottolineare con piana ma pungente evidenza quelle ataviche contraddizioni e sperequazioni con cui l’umanità pare condannare sé stessa all’infelicità.
Dialogando con l’AI e fra di loro, AL e GO indagano sé stessi e cercano impossibili risposte alla propria condizione di creature dotate sì di libero arbitrio e di emozioni e sentimenti, eppure dipendenti dal proprio “autore”, che, nel loro caso, non è neanche più un essere umano bensì un suo surrogato ipertecnologico. Un’artificiosità amplificata per antitesi dalla riproposta a intervalli di brani di una replica dei Sei personaggi in cerca d’autore messa in scena da una compagnia di prosa del secolo scorso, ma, alla fine, non diversa da quella di certa drammaturgia – non solo novecentesca – così come da stili di vita e atteggiamenti propagandati quali gli unici corretti, “giusti”, dalla società contemporanea.
Vannoni e Scappin sanno aggiornare alla nostra contemporaneità la determinante intuizione pirandelliana sulla condizione umana, affidandosi al proprio particolarissimo linguaggio scenico, allergico alla retorica e all’istrionismo e, al contrario, apparentemente “ordinario” ma in verità frutto di acuto e profondo scavo nella realtà tradotto in surreale stupefazione di fronte all’invincibile attrazione umana per l’infelicità…
Visto al Teatro delle Moline di Bologna il 20 dicembre 2024
(Laura Bevione, Dramma.it, 24 Dicembre 2024)
Quotidianacom: un Pirandello per l’Intelligenza Artificiale
“Manicomio! Manicomio!” Gridavano sconcertati gli spettatori borghesi alla prima rappresentazione di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, al teatro Valle di Roma nel 1921. “Comunità terapeutica riabilitativa” griderebbero oggi, in preda ad aggiornamento di resipiscenza.
Il grido e la sua correzione woke risuonano nell’ultimo spettacolo di Paola Vannoni e Roberto Scappin (Quotidianacom), Algoritmo d’autore, che ha debuttato al teatro delle Moline di Bologna dall’11 al 22 dicembre, ispirato a Sei personaggi in cerca d’autore (si replica al teatro Quarticciolo di Roma in febbraio).
Questo spettacolo, come gli altri loro, ha la forma folle della divagazione continua, per associazione, per slittamento semantico, per sovrapposizione o fusione di piani, per accumulo e variazione di citazioni, per tagliente sguardo alla società della comunicazione e dello spettacolo, per deflagrazione. I due risultano insieme coinvolti e travolti dallo sviluppo inesorabile delle loro invenzioni in un ‘gioco’ teatrale che altrove ho chiamato a ragnatela, intreccio rizomatico di fili che sembrano divagare fino a far perdere la bussola e poi portano a un senso dolente, sconsolato di precisione di sguardo sul magma del reale.
Qui i due sono attori in cerca di personaggi, di una trama che dia loro consistenza, pur senza fornire la possibilità di trasformare l’andamento delle cose, di trame già costruite. Spazio diverso hanno i performer, dicono subito, capaci di essere e intervenire. Nella sarabanda di idee, affermate, ribadite e subito decostruite, i Quotidianacom si affidano a un super autore dall’aspetto molto contemporaneo, IA, l’intelligenza artificiale che, con spassosi interventi, un po’ rigidi, come comunque si addice a una macchina capace di incasellare ma non di modulare, prova a donare una trama ai due, mentre due muti testimoni (Cristina Matta e Romano Trerè) assistono immobili, fino a una rivelazione conclusiva.
L’azione, vorticosa, ogni tanto si scatena in contenuti, meccanici passi di danza, con travestimenti ottenuti con semplici oggetti. I due protagonisti diventano Al e Go, parte di Algo-ritmo, mentre la parola ritmo scatena abbaiare di cani (un cane salvadanaio di ceramica sta sul tavolino che arreda la spoglia sala, emblema del “cinismo” di questo teatro senza facili consolazioni).
La caccia a qualche personalità che riempia uno, due, molti vuoti diventa frantumazione di realtà, caleidoscopio di situazioni e idee, da quelle del conversare quotidiano a citazioni da Camus, Céline, Cioran, per un divertimento pungente, sempre sul punto di irrompere nel grido di “manicomio!” (“comunità terapeutica riabilitativa!”), svariando dal diversivo al tormento, dalla fumisteria surrealista a carezze simili a quelle del boia sul collo del condannato.
È un umorismo raffinato e rastremato, algido, che consente di ridere solo a denti stretti. Se si lasciasse andare appena un poco di più creerebbe un tipo di spettacolo diverso, demenziale, molto coinvolgente, popolare perfino. Ma i Quotidianacom si “accontentano” di rendere il teatro una seduta di anatomia, in cerca, nel delirio dell’ammodernamento tecnologico, di un barlume di verità nella deflagrazione delle forme e dei contenuti, specchio esploso del nostro comune blaterare quotidiano, nel nostro stare in equilibrio su molti burroni.
(Massimo Marino, massimomarino.eu, 23 Dicembre 2024)
L’AI distruggerà anche il teatro
Una luce rossa cala e cola dall’alto come benedizione divina scendendo sul piccolo altare laico centrale. È una rievocazione, una sorta di seduta spiritica attorno a questo flusso che imbeve la terra in un’osmosi e passaggio tra l’Altrove e il nostro Tempo, tra il Prima e il Dopo, tra l’Intelligenza Artificiale e quella degli uomini.
Il duo dei Quotidianacom ribadiscono la loro cifra intellettuale, il loro amore per la parola, il loro ricercare e scandagliare frammenti e anfratti, discorsi e ragionamenti a sezionare le parentesi e il non-detto in virtù di un andare a fondo, fino a sviscerare domande, tentare di capire, arrivare al nocciolo, al cuore dell’etimologia, porre interrogativi più che dare soluzioni
Il loro cammino produttivo si impreziosisce di un altro capitolo, Algoritmo d’autore (visto al Teatro delle Moline, prod. ERT Teatro Nazionale) vagamente ispirato al testo pirandelliano dei Sei personaggi , che l’autore sempre deresponsabilizza, toglie peso, lascia più liberi assumendosi tutte le deleghe.
Entrambi in tuta, per desacralizzare nuovamente il teatro, forse violentarne e bullizzarne i cliché, Roberto Scappin in blu e Paola Vannoni in giallo dialogano con quello che non c’è, non esiste e non si vede: una voce senza corpo che arriva da chissà quale sperduta dimensione. Le loro parole sono soffuse, sussurrate in una forma dolce ma dal contenuto pungente, un filo di respiro sgorga.
Il fumo che si attorciglia alla luce ci ha stimolato il ricordo dell’installazione dell’artista indiano Anish Kapoor, quella nebbia mistica spinta da giganteschi ventilatori vista nel 2011 a Venezia all’interno della Chiesa di San Giorgio. I due si palleggiano la parola, si interscambiano, si finiscono le frasi come fossero un corpo solo, non c’è astio né competizione tra le due figure, sono sulla stessa lunghezza d’onda a contrastare, o almeno a prendere le distanze docilmente da questo supercomputer dalla tonalità calda e amicale.
Dai primi spettacoli i Quotidiana hanno abbandonato l’ironia ma anche quella violenta vis dei lavori del passato. Lui è Al, Lei è Go, il cane di ceramica è Ritmo. Se pensiamo di allungare il primo nome, da Al facendolo diventare All, ne esce un Tutto va, un tutto scorre, il panta rei di Eraclito. Tutto scivola e si evolve anche se i nostri se ne stanno piantati, bloccati, fermi, reclusi in questo spazio acerbo e nero, un punto sperduto nell’Universo, incapaci, isolati, impotenti in questa tragedia tutta esteriore, autocitazione di un loro testo di una quindicina di stagioni fa.
Vorrebbero far urlare al pubblico Manicomio, quello che la platea nel maggio 1921 gridò verso il palco tra i fischi al Teatro Valle di Roma alla prima rappresentazione dei Sei personaggi. Citano Camus, Gianna Nannini, Audrey Hepburn, si muovono come pupi siciliani o bambole interrotte su luci stroboscopiche: Dov’è il copione. Il copione è in noi. Siamo noi. Alle loro spalle due figure silenti che sembrano i genitori di Hamm nel Finale di Partita beckettiano: l’uomo ricorda molto lo stesso Pirandello, con il pizzetto iconico, la donna potrebbe essere la bambina dei Sei personaggi annegata nel dramma e invece qui, in questo angolo siderale, cresciuta e diventata adulta.
Il ragionamento si sposta dal teatro e dall’attore alle persone, a quello che stiamo diventando, automi con il cuore imbevuti di regole non scritte, ma che dobbiamo rispettare per stare dentro i confini del socialmente accettabile, impregnati delle paure del politicamente corretto, impantanati e costretti e intorpiditi dentro leggi, modelli e principi falsamente inclusivi che invece che rispettare tutti ci mettono nella condizione di temere ogni nostra opinione e critica diversa dalla massa, dalla maggioranza, dal pensiero unico.
Algoritmo d’autore è una confessione con Dio, è un cercare di fermare il treno in corsa verso la folle deriva che ha preso il nostro Tempo confuso e fragile, è il tentativo (per sua stessa natura fallimentare) di arginare, con le mani, la valanga. Stiamo solo attendendo che l’Intelligenza Artificiale ci espropri, ci esautori, ci soppianti, ci silenzi, ci emargini, ci annienti. Sappiamo che accadrà ma nessuno sta attuando e mettendo in pratica assolutamente niente per prendere contromisure adeguate: l’uomo è l’unica specie che lavora per il proprio abbattimento e affondamento.
I Quotidiana fanno avanguardia. Sono oltre il nostro tempo. Sono coerenti con il loro percorso artistico: in questi anni non si sono fatti plagiare dalle mode del momento, non hanno cambiato idea sul modo di fare teatro né su come occupare la scena. Puri e duri (nel senso di durata).
Visto al Teatro delle Moline di Bologna.
(Tommaso Chimenti, gagarin-magazine.it, 20 Dicembre 2024)
La messa in scena dell’ambiguità. Note su Algoritmo d’autore di quotidianacom
Ha debuttato ieri sera al Teatro delle Moline di Bologna, dove sarà in scena fino al 22 dicembre, Algoritmo d’autore di quotidanacom. Riferimento testuale di partenza (“trampolino”, per dirla con Jerzy Grotowski), Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.
Lo spettacolo esplora i confini sottili tra presenza umana e macchina, tra attore e performer: non si tratta solo di una distinzione terminologica, ma di un’indagine sull’essenza della rappresentazione.
Roberto Scappin e Paola Vannoni non si limitano a interpretare un ruolo: incarnano due algoritmi antropomorfi, Al e Go, con una fisicità lignea e burattinesca che sembra ricalcare la forma-pensiero del performer, in cui il corpo stesso diventa linguaggio, piuttosto che quella dell’attore, che tradizionalmente incarna e interpreta un personaggio.
SUSSURRI E FRAMMENTI: LA PAROLA COME CODICE
Il ritmo è scandito da sussurri sincopati e in controtempo, una musicalità del linguaggio che richiama le irregolarità del codice binario. Questo andamento discorsivo è indice di una cifra stilistica ben definita del duo, in cui la forma diventa parte integrante del contenuto.
Qui la “tragedia tutta esteriore” (autocitazione che rimanda a una loro precedente produzione) si traduce in una rinnovata centralità del linguaggio verbale, inteso come dispositivo critico che forza la ricezione.
PERSONAGGI SENZA TEMPO: DIALOGHI TRA DISINCANTO E IRONIA
Il nichilismo che emerge è, come sempre, dolente e arguto, con l’acutezza di chi sa di scrutare il mondo con sguardo disincantato.
I dialoghi evocano il sarcasmo spietato di Oriana Fallaci, le sue domande taglienti e la sua visione disillusa della società, il disincanto febbrile di Louis-Ferdinand Céline, con i suoi personaggi costantemente in bilico tra cinismo e disperazione, e la vena popolare e affabile del Commissario Montalbano, con il suo linguaggio colorito e la sua saggezza pratica.
La presenza evocata di Cyrano è richiamata e moltiplicata attraverso il naso rosso da clown, che non è solo una maschera comica, ma anche un segno di vulnerabilità e malinconia.
Lo spettacolo propone un intreccio, mescolando elementi della “cultura alta” (come riferimenti letterari e filosofici) e della “cultura bassa” (come personaggi della cultura pop o della narrativa di genere). Questo approccio crea un tessuto intertestuale denso, un insieme di rimandi e citazioni incrociate: una pratica non nuova per quotidianacom, che in tutti gli spettacoli precedenti ha adottato una strategia simile per destabilizzare lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con significati stratificati e ambigui.
PRESENZE-ASSENZE E IL PARADOSSO DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
La presenza dell’intelligenza artificiale inverte la dinamica consueta: non sono gli esseri umani a interrogare l’IA, ma spesso è l’IA a porre domande agli umani.
Questo rovesciamento stimola la riflessione sull’autocoscienza delle macchine e sulla loro capacità di fare domande, un aspetto che richiama le interazioni paradossali delle macchine di Alan Turing, in cui non è più chiaro chi detiene il controllo della conversazione. Le domande dell’IA, lontane dall’essere puramente strumentali, assumono una valenza esistenziale, spingendo i personaggi a rivelare le proprie fragilità e contraddizioni.
Questa dinamica ha uno scandaglio ulteriore grazie all’uso delle voci registrate di un vecchio allestimento dei Sei personaggi in cerca d’autore: esse si manifestano come presenze-assenze, veri e propri fantasmi scenici. Non semplici richiami sonori, queste voci agiscono come un contrappunto narrativo e temporale: sono echi di un passato teatrale che insiste nel presente, amplificando la tensione tra il “qui e ora” del teatro e la memoria persistente della registrazione.
Il termine “persona” nel suo senso etimologico di “maschera” si rivela particolarmente pertinente: le voci disincarnate incarnano, a loro volta, una presenza scenica che non si vede ma si percepisce. La dialettica tra presenza e assenza si traduce, dunque, in una metafora più ampia sul senso stesso dell’essere in scena e sul confine labile tra l’essere e l’apparire, uno degli assi portanti del teatro tanto pirandelliano quanto di quotidianacom.
IL CONFINE TRA IL TEATRO E IL MONDO
In scena, accanto a Paola e Roberto, appaiono altre due presenze, Cristina Matta e Romano Trerè: figure del mondo, complementari alle figure del teatro Scappin e Vannoni.
La loro presenza introduce un confronto tra realtà e rappresentazione, con una mai risolta tensione tra essere e apparire. Vien da pensare agli angeli de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, testimoni silenziosi e osservatori della vita umana. E a Beckett: non è solo la funzione di osservazione a richiamare Aspettando Godot, ma anche il tempo sospeso e il senso di un accadimento che non si realizza mai. L’andamento scenico riprende il ritmo dell’attesa beckettiana, con un senso di rarefazione che è sia scenico che esistenziale.
IL SUONO DEL DUBBIO: BENEDETTO MARCELLO E L’ECO DELLA RAPPRESENTAZIONE
Il richiamo a Benedetto Marcello nel finale risuona come un’eco che non si spegne, evocando l’idea di un ritorno circolare e, forse, di un’impasse. Più che una conclusione, si percepisce un’apertura su uno spazio di riflessione: se la rappresentazione non si chiude mai definitivamente, qual è il senso del suo ripetersi?
La musica, qui, non è mero accompagnamento ma dispositivo critico, strumento che interroga il tempo e la forma stessa della scena: è, parallelamente al linguaggio verbale, elemento di straniamento. Come già accaduto nei precedenti spettacoli di quotidianacom, ciò che è udibile amplifica le tensioni tra ciò che è detto e ciò che è taciuto.
Il pubblico, posto di fronte a questo cortocircuito, non può che chiedersi: è la scena a interrogare il pubblico, o è il pubblico a interrogare la scena? Ancora: se il proprio linguaggio diventa l’oggetto principale della riflessione, c’è il rischio che l’opera si avvolga su di sé, perdendo il contatto con il mondo esterno?
O forse, proprio in questo movimento circolare, risiede il suo senso più profondo?
(Michele Pascarella, gagarin-magazine.it, 12 Dicembre 2024)