A CASA, BAMBOLA!

Facciamo qualcosa di finto. “A casa, bambola!”  dei Quotidiana

Entrando ci si trova a cospetto di un uomo nudo, di spalle, parzialmente visibile perché un po’ dentro e po’ fuori della cortina argentata che riempie la scena assieme a un tavolo e a due sedie.
“Un culo” – verrebbe da dire parafrasando una drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli di qualche anno fa – un nudo che parzialmente intimidisce chi deve ancora prendere posto, perché lo spettacolo comincia così, in media res, con il corpo dell’attore (o almeno una parte) già sulla scena.
Presumibilmente chi è venuto al Teatro delle Moline di Bologna per vedere un adattamento da Ibsen sarà rimasto deluso da “A casa, bambola!” dei Quotidianacom – ovvero Paola Vannoni e Roberto Scappin – perché Ibsen c’è sì, ma in forma fantasmatica, evenemenziale, ridotto e distillato nella reazione che il pubblico nordico ebbe nel 1879 all’apparizione del capolavoro ibseniano: ovvero, il “gelo” difronte al gesto inaudito dell’abbandono del tetto coniugale da parte di Nora.

Ma in fondo è questo che andrebbe fatto con i classici, che per la stratificazione di significati e immaginario che si portano appresso andrebbero scandagliati a fondo, rispettandone il testo, oppure semplicemente presi come dispositivo tematico, come prisma interpretativo, lasciando la vicenda sullo sfondo (le riattualizzazioni, se non sono riscritture profonde, non funzionano quasi mai).
Questo ultimo lavoro del duo riminese sceglie la seconda opzione, proponendo un lavoro attorno allo “scandalo” della donna che disinnesca e infrange il proprio ruolo sociale, un spettacolo che si dipana secondo lo stilema consolidato della compagnia: chiacchiere, digressioni, slittamenti semantici portati avanti in un serrato dialogo tra due figure stilizzate, che frulla riflessioni acute e chiacchiericcio quotidiano con un pizzico di ironia e provocazione.
Nora e Torvald non sono che pretesti, Ibsen stesso un personaggio tra gli altri di questa “commedia” della ciarla e della riflessione: e d’altronde il drammaturgo norvegese per primo rilevò come il pubblico, di fronte al suo testo, si spaccò non tanto per questioni estetiche quanto “per il problema morale che pone”.

In “A casa, bambola!” si parla di psicologi – che ti credono un imbecille come gli avvocati, e allora occorre aiutarli a fare gli psicologi, ma in fondo già lo facciamo… pagandoli –; e si parla di vegetarianesimo – cosa significa essere “quasi vegetariani”? Gli animali non possono essere “quasi morti”, ma magari potrebbero essere mutilati, senza una coscia… –.

Ma alla fine il vero discorso di Quotidianacom ruota attorno a due perni ritornanti: il ruolo sociale che tutti recitiamo e, in particolare, quello imposto alle donne.
Quel ruolo rifiutato da Nora con il gesto dell’abbandono, gesto “scandaloso” perché infrange i “sacri doveri” a cui si richiama Torvald.
“Sperando che la scena sgomberi l’equivoco concettuale”, dicono Scappin e Vannoni, “non facciamo finta di fare, ma facciamo qualcosa di finto”.
Ma, si potrebbe obiettare con il Vonnegut di “Madre notte” che, a forza di interpretare un ruolo, di “fare qualcosa di finto”, si finisce per essere davvero quella cosa.
È quanto accade agli uomini di sinistra, i “comunisti”, bersaglio dell’ultima invettiva dello spettacolo: i progressisti che, convinti di essere nel giusto, finiscono per non vedere i principi patriarcali che pure incarnano.
Un’asserzione forse generalizzante, ma non per questo meno veritiera, se già Engels, nei suoi studi sulla classe operaia inglese, affermava che la donna, nella famiglia, ricopre il ruolo che il proletariato ricopre nella società.
Le cose sono cambiate in centocinquant’anni, ma non abbastanza da invertire quell’asse di sfruttamento. Un asse giustificato, secondo il duo Vannoni-Scappin, da una solida rete di ideologia familista, di stampo profondamente cattolico.
Forse questa è la parte più opinabile dell’invettiva di Quotidiana, della famiglia cattolica resta ben poco in questo nostro presente, mentre i modelli romantici veicolati dalle televisioni, dalle canzoni, preservano sacche di immaginario tossico ben più di quanto riesca a fare un’omelia.
Ma quello che conta, nei lavori del duo riminese, è che il prisma di senso evocato – in questo caso il ruolo sociale della donna – esploda, catarifrangendo una serie di questioni non necessariamente connesse, o coerenti, ma che proprio per questo sono in grado, per accostamento, per iperbole, di evocare la complessità.
Insomma, “A casa, bambola!” più che un trattato sulle imposizioni sociali all’indirizzo delle donne è una macchina celibe attorno a quel tema, pronta a generare polemica e riflessione.

 

(Graziano Graziani, Stati d’eccezione, 18 gennaio 2023)

Quotidianacom:  A casa, bambola!

Bisognerebbe stravolgere le scene scarne che usano i Quotidianacom, materializzando la rete di parole che pronunciano.
Indicare i piani di senso con fili di un colore, quelli narrativi con altri di colore diverso, quelli di riflessione sui precedenti con un altri ancora, utilizzando sfumature di colore per indicare i salti da un livello all’altro, e altre tinte per i qui pro quo, i giochi di parole, i calembour, le contorsioni, gli orizzonti aperti e quelli richiusi, le scatologie, ossia il precipitare nel linguaggio basso per poi risalire.
La scena allora sarebbe riempita da una fitta ragnatela, che indica l’andamento rizomatico dei loro spettacoli, con gli snodi di cambio di direzione non sempre univoci, evidenti.

L’ultimo spettacolo, A casa, bambola!, visto al teatro delle Moline di Bologna, rappresenta nella loro produzione un salto: non più solo discorsi quotidiani, intorno al desco familiare, magari impegnativi, magari sulla morte, ma confronto con un testo classico, Casa di bambola di Ibsen.
Messo, naturalmente, nel tritasassi del loro teatro a ragnatela.
Assistiamo, infatti, a variazioni continue dalla cronaca delle reazioni del pubblico della prima rappresentazione nel 1879 alla reazione femminista di Nora, che alla fine della storia va via da casa, rifiutando il ruolo di “scoiattolino”, ad altre considerazioni sul testo, al dialogo intorno al tavolo di casa dei due attori e autori, con tende di plastica sullo sfondo pronte a diventare color sangue o color piombo, o ad aprirsi per una proiezione, o a rappresentare la strada per andare dallo psicologo (terapia di coppia?).

All’inizio lui, Roberto Scappin, si mostra di terga nudo, sporgente da quella tenda. L’uomo è nudo, di fronte alle rivendicazioni femminili? Ancora di più sarà scorticato dal dialogo con l’altra, Paola Vannoni, Lei (lui è naturalmente Lui come personaggio).

Ma questi primi piani dello spettacolo, Ibsen e la coppia (con psicologo incombente ma invisibile), non sono gli unici: entrano Archimede con il suo Eureka, per spiegare l’euristica della disponibilità, equivoci, lezioni di musica con Beethoven e Bach, con la coscienza, ribadita continuamente, che siamo in una finzione, che può aprire ogni tipo di porta mentale.

Una finzione che sembra veramente vera, traduzione casalinga, domestica, italiota se volete, ma anche intellettuale, quasi “radical chic”, di una tensione di genere che non si placa, allusa anche ricorrendo a un pelouche, un tigrotto un po’moscio.

I Quotidianacom parlano, parlano, si insidiano con la parola, dicono tutto il possibile, come un televisore, anzi due televisori sempre accesi su programmi diversi, che a tratti riescono a marciare in accordo. E il loro parlare è azione, relazione spaziale, riproduzione di un mondo che è il nostro e che il nostro provoca.

Riproducono in chiave di commedia corrosiva le tensioni della nostra vita di tutti i giorni, proiettata in un universo filosofico che viola l’aura regola di Wittgestein, di ciò di cui non si può parlare si deve tacere.

Qui è scoppiata, intanto, come una kermesse simile a una guerra la società dello spettacolo: le bocche sono aperte, come nel nostro quotidiano blaterare. Ma questa rete, ragnatela, labirinto, alla fine, dopo molti sorrisi e pure risate scatenate, ci lascia consumati da quanto ci siamo rivisti intrappolati, noi spettatori, sperduti proprio al centro di quel labirinto.

 

(Massimo Marino, 21 gennaio 2023)

A casa, bambola!: ultimo disperato tentativo del maschio sconfitto 

Cosa rimane di Ibsen in questa non tanto rivisitazione ma spunto del duo riminese Quotidianacom?
Forse niente ma proprio perché nulla doveva rimanere. Non è nemmeno un’essenza, meglio è quello che è riuscito a trasalire, a sospendersi, per usare il gergo chimico.
E forse tutto sta dentro la traslitterazione che da “Casa di bambola” che in questa interpretazione diventa “A casa, bambola”, con quella virgola che si fa carne e sostanza, momento di passaggio e svolta, stop e rilancio.
Nel titolo si sente ancora la verve e la vis del duo che qui carica meno, tratto distintivo delle loro drammaturgie, su quei punti comico-polemici-profetici-provocatori profondi che li avevano caratterizzati.
Come se ormai non ci fosse più niente da ridere. Il discorso si farebbe serio: le donne, la questione del gender, molto attuale nel dibattito dei nostri tempi dove, giustamente, le certezze di un vecchio maschilismo sono state messe in discussione.

Se il titolo è di rottura, perché amplia facendo una panoramica e scarta compiendo una parabolica rispetto all’originale, è la scena iniziale, un nudo maschile insieme retrò e d’avanguardia, con Roberto Scappin, l’uomo e il maschio, senza vesti, a darci il benvenuto con il suo fondoschiena in primo piano, come a dirci “Il Re è nudo” ma non solo, all’ex re non è rimasto che sbirciare da dietro le tende quello che succede in sua assenza, che lui lo voglia o meno, può soltanto stare a constatare i tempi che sono mutati, cambiati, maturati, può stare sulla riva a vedere passare il nuovo che avanza sotto di sé.

Poi Scappin e Paola Vannoni si mettono al tavolo e di profilo, la loro cifra classica, e sussurrano frasi e qui sembrano proprio i Marina Abramovic e Ulay del nostro teatro. Intanto le tende-separé alle loro spalle, che dividono la loro riflessione dal caos delle conseguenze dei sommovimenti dei generi a confronto e contrasto di questi ultimi decenni, si tingono di rosa senza che però il tutto scada in slanci femministi o in dichiarazioni guerrafondaie o ancora esaltazioni della donna contro il maschio, malcapitato di turno.
Da parte dell’uomo c’è rassegnazione e, forse, una nuova accettazione di un ruolo non tanto ridimensionato ma da ripensare ed è evidente che adesso sia confuso, (ob)nubilato, indeciso, incerto. La donna però non lo mette in imbarazzo, ha pietà di lui, potrebbe infierire ma lo salva, carezzevole ma non più cedevole o sottomissibile.
Nel terzo atto del testo dell’autore norvegese Nora decide di lasciare il marito, cosa allora disdicevole e considerata impossibile, scandalosamente offensiva, fuori da ogni logica del benpensantismo e perbenismo.

Le frasi che si sputano e riversano addosso con dolcezza tenue e senza allegria, piena di sottintesi, sono sempre caustiche e bruciano, il maschio sente la pressione dell’abbandono, schiacciato dall’emancipazione dell’altra metà della coppia, ma non si ribella nemmeno più, non si arrabbia ma ha accettato la situazione chinando il capo a questa nuova forma di condivisione: “I tuoi no sono sempre molto politici” biascica lui senza convinzione.
Il fatto che l’uomo sia in nero e la donna in bianco è però la stereotipizzazione del luttuoso da una parte e del candore dall’altra: “Ogni tanto una donna fa fuori il marito. Dovrebbe accadere più spesso”.
La donna rintuzza, ma senza aggressività, forse quello che ci vorrebbe sempre per non scadere in strali di lotte armate che portano a nuove forme di dolore e potere: “Perché gli uomini non si accorgono?”, pare incredula quando pone questo interrogativo al suo dirimpettaio.

E in effetti sta tutto qui il nodo da sciogliere, il sentire, la sensibilità, il vedere l’altro, l’accorgersi appunto, l’avere accortezze, l’accorciare le distanze invece che allontanarsi.
Le donne vivono tragedie sotto gli occhi indifferenti degli uomini”. La donna non accondiscende più, non asseconda ma neanche in questo caso, saggiamente, è in antitesi, cercando comunque una mediazione, un punto di contatto civile.
Lui prova l’ultimo disperato tentativo, l’ultima carta, l’ultima chance: “Il contatto fisico abbatte il cortisolo, l’ormone dello stress”.
Ormai la barca ha lasciato il porto e naviga con le proprie vele spiegate.

 

(Tommaso Chimenti, Recensito.net, 14/01/2022)

Con A casa, bambola! Quotidianacom spostano l’asse di quell’incursione nel reale –  che per Renato Palazzi era parte della loro cifra – verso i classici del Novecento.
Qui tocca a Ibsen e al lavoro che traccia una direzione per l’emancipazione femminile contro le strutture sociali della borghesia. Passando per la psicologia i calembour e le partiture gestuali Vannoni e Scappin impastano un Ibsen comico e tragico come sempre tutto loro ma che non lo stravolge.
Essendo già lì le domande che ancora ci portiamo dietro sui rapporti sociali e di genere.

 

(Laura Gemini, 14 gennaio 2023)

Come fossi (ancora) una bambola: quotidianacom vs Ibsen

In scena in questi primi giorni del 2023 al Teatro delle Moline di Bologna ci sono i Quotidianacom assieme ai fantasmi di Henrik Ibsen: A casa, bambola! (prodotto in collaborazione con ERT – Teatro Nazionale e dal Teatro della Caduta), titolo che non indulge a fedeltà al testo, mantenendo però un saldo contatto col classico dramma, facendo di questa pièce un rapsodico metateatro di intime parodie.

Tutto nei lavori dei Quotidianacom è possibile, tranne che una trama lineare. Mai una fedeltà filologica, nemmeno a se stessi.

Si parte con Lui nudo di spalle e un proscenio altrettanto spoglio. C’è tutto il tempo di scorrere l’epidermide del lato posteriore di Roberto Scappin, illuminato a dovere, per cogliere financo le nervature tese dei polpacci. Lei, Paola Vannoni (assieme formano i Quotidianacom) è immobile sulla diagonale che dai talloni di lui taglia il palco; prende atto della nudità dell’uomo, cosa pensa non lo sapremo mai.

Ispirati dal celebre testo di Ibsen un uomo e una donna s’invitano su un palco a “far finta di fare” Casa di bambola. Giocano coi significati e i simboli di un classico commentato da Antonio Gramsci su L’Avanti del 1917.  Era, per il futuro segretario PCI, il dramma spirituale di una borghesia “grossa e piccina”, che s’indigna davanti al finale del famoso terzo atto.

Il terzo atto che fece scandalo alla fine dell’800, quello in cui Nora decide di abbandonare la famiglia per fedeltà alla propria vita viene in questo lavoro frammentato in tanti sketch rallentati da densi silenzi, in cui si avvertono tutti i furori e tutte le dolcezze che possono unire una coppia.

Siamo dentro la mente complessa, raffinata di Scappin e Vannoni; Torvaldo e Nora (i personaggi di Ibsen) si dibattono tra il testo del loro drammaturgo e i bisturi compositivi dei quotidiana.com, in una costante meditabonda doppia sovrapposizione. Due soli oggetti catalizzano l’attenzione: una tigre di pelouche, chiamato oggetto transizionale, e due palline antistress colorate. Il dramma si fa “drammedia”, lo scandalo sedimenta in argomentazione.

La scenografia ha una sede anche immaginaria, si schiude nelle ombre e negli specchi dietro il sipario argenteo. Lì accadono cose, da lì giungono le voci di Nora e Torvaldo doppiate a turno da Scappin e Vannoni. Proscenio e palco a coincidere in pochi metri occupati da un tavolo nero e due sedie. Il sipario si fa valico tra i due salotti di Ibsen e Quotidianacom; al di là della tenda, Nora e Torvaldo, chiusi dentro l’antico dramma, reclamano le proprie ragioni, mediati dai due attori che un po’ giocano un po’ traducono (traspongono) il dramma, forti di una tecnica che sa come decomprimere, rarefare la scena di colpo.

Nella dispettosa comunanza che lega da vent’anni i Quotidianacom alla commedia e alle “tragedie tutte esteriori”, questa volta troviamo anche il medium di coppia, lo psicologo; un dottor Bruno che simbolicamente divide e poi ricompone la coppia. Uno vi ha ceduto pensando di innescare un cambiamento, l’altra lo ha seguito per guarire un eccesso di desideri; entrambi abbandonano poi il divano dell’inconscio “perché anche lo psicologo non s’accorge”, dirà lei; perché “la lezione dell’inconscio è una lezione di umiltà, per questo spesso non si ha accesso” dirà lui.

Il capitolo dedicato alle sedute col dottor Bruno sorprende per le assonanze – non così peregrine – col testo classico: va forse ricondotto ai prodromi della psicoterapia di fine ‘800 quando Ibsen scrive di una donna tormentata e stanca che abbandona il marito?

Nora acquisita consapevolezza, vorrebbe stritolarsi per aver accettato per anni un ruolo nel teatrino famigliare borghese, umiliante, alienante. 

Forse anche Paola Vannoni vorrebbe stritolarsi – a oltre cento anni di distanza – per ragioni analoghe? In parte sì. Siamo comunque dentro la parodia, dentro la vita che in essa risuona, al cui centro la bambola rimane ancora tragicamente in ballo. Certo, meno drammaticamente, forse affiancata da un compagno che ammicca, aspira alla propria evoluzione, va in terapia.

In questo loro omaggio (oltraggio ad attese classiche) al lavoro di Ibsen, Paola Vannoni e Roberto Scappin non sono quindi Nora e Torvaldo, nemmeno sono la loro declinazione contemporanea: sono piuttosto la fuga dei personaggi stessi dal testo, dal teatro, e anche dal presente. Sono sempre di più loro stessi appena al di qua dei loro personaggi, nella fuga da sé, dalle loro memorabili trilogie. Perché questo lavoro, che pure attinge da un classico del teatro, è sorprendentemente contemporaneo, è nuovo rispetto al repertorio dei due autori; nel bene e nel male diverge, si oppone, contrappone al comico il faceto, mette a nudo senza ritegno le infermità di qualunque discorso morale, religioso, politico di genere e di classe fatto oggi.

Ma questo non è nemmeno così evidente, accade piuttosto attraverso una implicita dialettica dei contrari che contrappone le parole espresse a voce a quelle tradite dalle posture, dai volti, più che mai esterrefatti, capaci di un ulteriore giro d’impassibilità. Ogni tanto un guizzo, come per dispetto, s’accende un occhio azzurro, palpita la vita. 

Sintesi: gli attori in scena si accordano come autori per fare finta di fare un dramma che in ultimo non riesce loro; indugiano sui propri appoggi, restando contemporaneamente su due piani, quello di autori a innescare la scena, e quello di attori in scena a disobbedire al copione stesso. Sviluppo: impossibilità del vero e del falso.

Resta riconoscibile il metodo d’indagine dei Quotidianacom – euristica esplicitata – ma solo per essere negato, annichilito a colpi dal calembour, di “teorie del pelouche”, riuscendo così a non farne un dramma, né una commedia, ma piuttosto una rapsodia teatrale. Gli spiriti di Nora e del marito aleggiano di qua e di là dal sipario, invocati dall’uno e dall’altra, in un andirivieni di appelli, supposizioni, sedute psicanalitiche e prove di solfeggio manuale. Nonostante la brevità della pièce, la varietà (il varietà?) è garantita.

L’inizio. Lui nudo desiste a mostrare il lato A, le obbedisce e guadagna la prima uscita. Lei apre in proscenio con le parole di Gramsci.
Hanno così inizio le danze verbali e di bacino; da qui in avanti, lui rientrato di nero vestito, i due si alternano al tavolo, al gioco, al balletto senza mai sconfiggersi a vicenda, senza nemmeno abbandonare l’idea di un coltello da cucina in un sacchetto di plastica, di un immaginario squartamento di un cane. Tutto a scompaginare il racconto attraverso un apparentemente casuale espediente prosaico che piomba improvviso: una minzione urgente, una citazione di Battisti, dei Beatles. 

Il pop fa le sue irruzioni estemporanee, fa da volano dissacratorio. Non manca certo la proverbiale ironia dei Quotidianacom, che anzi innerva il lavoro, ma questa volta è ancora più sottile, più amica del sarcasmo; viaggia sulle note di una fuga di Bach su una clavietta giocattolo che attende le dita della donna sotto al tavolo.
Mentre la coppia di Ibsen si separa intonando il dramma, Paola e Roberto rinsaldano la disputa, “problematizzano” le impossibilità del presente; gli ormoni dello stress sono già in calo, lei concede il contatto, dalle stasi irose di tante loro commedie ritroviamo qui, nell’archetipo della coppia, un duo sensibilmente risolto, conciliato al proprio destino imperscrutabile, in un temporaneo armistizio di confronti. 

Non ci s’inganni tuttavia, si staglia a sorpresa sul finale, un sillogismo ardito da parte della donna… Il maschio comunista… Il maschio fascista… Alla fine esaltando il politicamente scorretto. Questo, crediamo rincari il merito del presente lavoro.

 

(Michele Montanari, Gli Stati Generali, 17 gennaio 2023)

Lo sguardo di Anna, una spettatrice di A casa, bambola! 

Ho visto ieri sera lo spettacolo “A casa, bambola!” dei Quotidianacom. Emozioni, sensazioni e pensieri così confusi che se avessi dovuto scriverne subito avrei detto: “non so che scrivere!”. Bisogna prima uscire dallo stato ipnotico in cui loro ti coinvolgono. Ai loro spettacoli devi lasciarti andare fino in fondo, senza pensiero pensante, così, immersi, identificati in quello che accade. Poi ci vuole tempo per uscirne, devi far sedimentare.

Ho pensato a come deve essere arduo il compito del critico che deve scrivere subito per esigenze di lavoro. Per mia fortuna conosco il teatro dei Quotidianacom da anni, conosco loro da anni, ed è per questo che vado e li raggiungo per vedere l’ultimo loro lavoro, dovunque sia il debutto.

Stamani, dopo averci dormito su, posso dire la mia! Io sono l’amica psicologa e da qui inizio perché il “terzo” della prima parte dello spettacolo è proprio lui, il Dott. Bruno.
Ogni coppia per resistere ha bisogno di un “terzo”, reale o immaginario che sia.
Il matrimonio è troppo arduo per sopportarlo in due. È così i due della storia, in crisi, disquisiscono intorno a un tavolo prendendo il rapporto come un oggetto a sé, da portare dal terapeuta come si porta un ”figlio problematico”, con la visione del padre e della madre.

Un primo piccolo capolavoro di vivisezione del quotidiano che i Quotidianacom operano, con la solita spudorata ironia e ferocia che solo la verità possiede. Il tema qui è il maschilismo di cui è infarcita nei dettagli la nostra vita di uomini e donne.
Un maschilismo denunciato da Nora/Paola, da Ibsen e da tutte le Nora a seguire e a precedere.
Un maschilismo portato in scena in modo assolutamente dissacratorio da Roberto /Torvald che nudo, di schiena, apre lo spettacolo chiedendo a Nora “ mi giro?”(mi ha ricordato il grande Fracchia), denunciando la mediocrità goffa e impotente del maschio di oggi.

Un maschilismo ineluttabile, che non conosce differenza fra pensiero/ uomini di sinistra e di destra, che usano termini diversi per rappresentare la donna con la stessa tragica dicotomia tra suora e puttana tra “da sposare” e “da scopare”. Donne a cui non è permesso il desiderio (lei ha troppi desideri! dice il povero Dott. Bruno).

Ma nel terzo atto, nel finale di Ibsen, Nora se ne va. Scandalo!!!!
Oggi ancora, dopo un secolo, donne che osano andarsene (che scandalo! ) vengono punite con la morte.
Ed è qui che Roberto e Paola offrono speranza e salvezza, è qui che riescono a dare a noi spettatori e interpreti di questa realtà in cui siamo immersi tutti, al di là dei ruoli che rivestiamo, una soluzione.
Solo quando e se l’uomo vede, si accorge e si allea con la donna se ne può uscire. Una Rivoluzione, Insieme!

 

(Anna Lalli, 22 gennaio 2023)