L’anarchico non è fotogenico

Al confine tra apatia e pensiero.
Recensione di “L’anarchico non è fotogenico” allo Spazio Kor

Ieri, ad Asti, il primo appuntamento del 2020 della stagione Public – Ognuno insieme, in collaborazione con la rassegna Concentrica

ASTI – Si è aperto il 2020 allo spazio Kor con il primo spettacolo di gennaio della stagione Public, dal sottotitolo “Ognuno insieme”, a significare il coinvolgimento degli spettatori in un luogo che è diventato fulcro di cultura e condivisione
Public è molto più di una stagione, è una realtà abitata e vissuta da spettacoli nuovi e sorprendenti, da un clima di partecipazione collettiva dove gli spettatori, al termine della serata, dialogano con gli artisti, da laboratori, da un’offerta che abbraccia tutte le arti performative.
E partecipativo, nel senso cerebrale del termine (e, si sa, è la mente ad essere rapita) è “L’anarchico non è fotogenico”, presentato da Quotidiana.com, in collaborazione con la rassegna Concentrica, sabato 11 gennaio al Kor, di fronte ad una platea numerosa e, come sempre, attenta. Primo capitolo della trilogia “Tutto è bene quel che finisce” (laddove la fine è conclusiva in sé, senza l’ottimismo shakespeariano) “L’anarchico…” è una costruzione dialettica sulla morte, sulla vita e sull’eutanasia, ma anche su tutto ciò che sarebbe bene che cessasse. Roberto Scappin e Paola Vannoni sussurrano, costringono lo spettatore ad entrare nelle loro elucubrazioni ironiche e spiazzanti. Il tono è sommesso, gli argomenti tanti e lo scambio dialettico mantenuto sul registro della flemma e dell’apatia.
Eppure si pensa, a partire dalla questione iniziale su cosa potrebbe morire, che sciorina una quantità di aspetti malati dell’individuo e della società. Si ironizza con distacco sulla differenza tra teatro e spettacolo (per il primo bastano un paio di persone che parlano, per il secondo necessita un tir di attrezzature e personale tecnico) e sull’indifferenza emotiva che stende una patina superficiale su ogni rapporto e ogni forma di comunicazione.
Scappin e Vannoni si presentano come due cowboy metropolitani, mutuando dall’immaginario cinematografico del West posture e indifferenza, come dei non-eroi abituati all’idea della morte, vicina e inevitabile. Con i cappelli da cowboy entrano nell’epopea del Far West e citano il giuramento di Ippocrate, quello del 400 a.c, in nome del quale tutt’oggi è negato il diritto all’eutanasia. Il sarcasmo sul dogma, che stride con la ragione, galleggia in un ritmo trasognato, che suggerisce, punge e si ritrae nell’inazione, colpisce con arguzia e poi si rifugia in una bolla surreale.  È questo lo stile inconfondibile di Quotidiana.com e “L’anarchico non è fotogenico” è un bel modo per scoprirlo in tutta la sua essenzialità e profondità apparentemente incurante.
Come sempre, una conferma della qualità e del carattere di novità di Public, realizzata da Spazio Kor in collaborazione con Città di Asti, Fondazione Piemonte dal Vivo, Teatro degli Acerbi, Parole d’Artista e Concentrica, e con il sostegno di Regione Piemonte e Fondazione CRT, con maggiore sostenitore la Compagnia di San Paolo nell’ambito del Progetto PATRI.

 

(Nicoletta Cavanna, Radiogold.it,  12 Gennaio 2020)

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Eutanasia, un vero e proprio tabù dei nostri giorni e tema scomodo che Quotidiana.com affronta nella sua seconda trilogia Tutto è bene quel che finisce. Il primo capitolo, L’anarchico non è fotogenico, in scena a Fuori Luogo, apre nel suo modo surreale e irriverente uno spazio alla riflessione.

Che cos’è una buona morte? La buona morte è la morte di ciò che deve o vuole morire, come il corpo esausto e stremato dalla sofferenza, che chiede di trovare riposo, che invoca la morte come una liberazione (cosa che lo accomuna, fra l’altro, al corpo torturato). La buona morte accusa la medicina, il giuramento di Ippocrate, la stessa Costituzione, rivendicando il diritto, non rispettato e tutelato, a morire. Quando la medicina fallisce il suo compito?
Se la vita è considerata solo in termini di quantità e durata, non siamo diventati anche noi stessi degli oggetti scientifici? Non abbiamo forse dimenticato le altre qualità che contraddistinguono la nostra esistenza?
E il fatto stesso che si parli di buona morte, il fatto che il corpo lotti per poter morire non contraddice in fondo la visione medico-scientifica o positivista dell’era moderna?
Morire e basta, finire, e lasciare che muoia ciò che deve morire, ciò che non ha senso sia mantenuto in vita. Immediata arriva la necessità di un chiarimento: cosa si intende con quell’“avere senso”? Cosa ha senso? Ecco il ruolo della morte: rendere urgente e imprescindibile questa domanda, la comprensione e la ricerca del che cosa valga davvero la pena. Morire comporta la ricerca dell’essenziale.
L’inquinamento materiale e spirituale in cui viviamo è causa e conseguenza della negazione della morte. Se morire comporta la ricerca dell’essenziale, implica di conseguenza l’eliminazione di tutto ciò che non lo è – e che dovrebbe essere abbandonato – per non infettare una buona esistenza. Ossia, l’inutile, il soffocante, i malanni della società, quelli della cultura e del sapere, che ci distraggono da ciò che è davvero importante.
C’è una connessione strettissima fra consapevolezza della morte, del dover morire e del saper morire, con il modo in cui si conduce l’esistenza, con le scelte che si fanno, con le prospettive che si adottano. Chi siamo noi? Possiamo definire chi siamo a seconda di come sappiamo affrontare la morte e di come ci sappiamo liberare da tutto ciò che dovrebbe morire? I due cowboy che vediamo muoversi in scena sono il richiamo a una figura mitica, come potrebbe essere quella di un guerriero: il rimando all’universo spirituale di chi sa morire, e sa anche uccidere.
La provocazione dei Quotidiana.com crea una reazione, che non è di irritazione o sdegno. Bensì l’aprire uno spazio di interazione e dialogo su un argomento tanto delicato, urgente e importante, facendo riflettere su quanto la condivisione delle idee e delle opinioni non conduca alla scoperta di nuove possibilità, a nuove occasioni per pensare, e di come il difforme (anche intellettuale, oltre che estetico) possa portare a conoscere strade nuove.
In scena, Scappin e Vannoni istigano al pensiero. Per questo il loro teatro non solo è politico ma è magistralmente politico, perché genera uno spazio aperto alla discussione e alla riflessione, senza pretendere di esporre manifesti, ideologie, visioni. Lo spettatore è autonomo.
Il lato formale della loro ricerca è probabilmente uno degli aspetti che più contribuiscono a questo effetto. La parola, che mantiene nel loro teatro un ruolo centrale, si compone però in un insieme senza senso. Come affermano gli stessi artisti, il testo è il concentrato che rimane una volta che si filtra tutto ciò che si sente dire in giro, ma trattenendo solo l’inutile, ciò che rischierebbe di cadere nel vuoto. La parola è sì essenziale dal punto di vista della forma, coincisa e ridotta al minimo, ma per quanto concerne il contenuto è un condensato dell’inutile.
Il testo è una sorta di buco nero, che crea tensioni e deformazioni dello spazio, ma che contribuisce a strutturare la rappresentazione e la particolare energia che la sostanzia. Intensa, essa aleggia sulla scena come una massa galleggiante informe, che si anima col gesto degli attori (un gesto parodico, potremmo dire) solo per brevi e intensi sussulti, per poi essere immediatamente riassorbita. Fra i due interpreti la circolazione di questa energia è palpabile e fortissima. Su una scena ridotta al minimo, si muovono le due figure indefinibili, i due improbabili cowboy, che incarnano e materializzano il desiderio di una filosofia di vita che sappia rapportarsi alla morte e che, di conseguenza, sappia anche restituire un giusto peso, senso e valore alla vita.

Sempre spiazzante, paradossale, provocatorio, surreale e sospeso. Decontaminato e decontaminante, deformato e deformante, L’anarchico non è fotogenico rompe il velo della facile opinione e della risposta scontata, obbligandoci a riflettere.

(Mailè Orsi, teatro.persinsala.it, 14 marzo 2016)

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I riminesi Quotidiana.com in scena al Dialma Ruggiero per “Fuori Luogo”

La Spezia – Condanne indirette e che più oblique non si può, metateatro al punto giusto – un atteggiamento dove è facile sbrodolare, beandosene -, un testo pesato e soppesato e un’ampia selezione di sorrisi e risate presti in prestito dal pubblico. Questi alcuni dei tratti dello spettacolo “L’anarchico non è fotogenico” dei Quotidiana.com, scritto e interpretato dai riminesi Roberto Scappin e Paola Vannoni, ultimo atto del cartellone di teatro contemporaneo della rassegna “Fuori Luogo”, che adesso vira – con “Fisiko” – verso un mese di teatro danza. Una chiusura onorando la sperimentazione, valore, del resto, nel segno del quale si era aperta, con “Vocazione” di Danio Manfredini, l’edizione 2015-16 dell’ormai consacrata e popolata manifestazione di casa al Dialma Ruggiero. Non che gli altri visti in scena non abbiano osato, ma senz’altro, tra lo splendido Manfredini e l’alto esempio dei Quotidiana, si è vista, nel bene e nel male, più tradizione, a volte appena spolverata con qualche intemperanza. Altre, infranta tanto per infrangere.

Sono stati grandi, i Quotidiana, tra Carne Montana e maschilicidio. Capaci di tenere insieme suggestioni, microcritiche, minuti divertimenti. E di tenersi insieme a vicenda, quasi reciprocamente orbitanti, ogni tanto simmetrici, e sempre di grande, efficace e monocorde ingombro teatrale. La voci come due solchi, lei vero cowboy, lui un po’ derelitto – e baciato da un prezioso rotacismo -, nonostante il degnissimo cappello western. Un tipo che con un “Sì” detto bene, col tempo giusto, fa piegare la platea. Degnissimi – soprattutto per le considerazioni dell’ampia serie “Potrebbe morire…” – lo spirito di denuncia, e, ancor più, di denuncia della denuncia: si può per esempio, anarchicamente, auspicare l’abolizione dell’ordine delle portate ma, come osserva Paola, non è poi gran lusso trovarsi primo, secondo e dolce contemporaneamente nel piatto. Minuscole ma evitabili vene di antipartitica. Considerazioni premonitrici in vista dell’incontro post spettacolo nel foyer(“Quando c’è il dibattito ho sempre una preoccupazione, si vedrà che voglio fare una domanda intelligente?”). Finale all’altezza di tutta la bella roba venuta prima, sotto un faro che fa l’altalena.


(N.RE re@cittadellaspezia.com, 13 marzo 2016)

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L’anarchico non è fotogenico: parola di quotidiana.com
      
Nella sala di San Giovanni a Teduccio il duo Scappin/Vannoni mette in scena dal 26 al 28 febbraio il primo capitolo del progetto “Tutto è bene quel che finisce”, creando un’atmosfera asettica e senza via di fuga, nella quale però lo spettatore può masochisticamente lasciarsi cadere con un sorriso tagliente sulle labbra.

Via Principe di Sannicandro è una piccola viuzza inadatta ai due sensi di marcia secondo i quali viene sporadicamente percorsa; a voler essere un po’ lirici e ricorrendo al semadell’abusata metafora biologica, ce la si potrebbe figurare con le sembianze di un giovane critico sognatore: ancora troppo piccolo per contenere nell’anima sua una solida strada con comode e numerose carreggiate, ma ambizioso – di un’ambizione non catilinaria, però – e deciso a raggiungere il cielo anche solo con un dito.
Sala Ichos, in via Principe di Sannicandro, eredita dalla stradina le stesse peculiari caratteristiche: uno spazio minuto, incapace di contenere folle oceaniche, ma più che capace di contenere mirabilia; il bello – declinato in maniera inconsueta, sorprendente, sempre sperimentale, sempre giovane – ha preso ad abitare questo teatro di provincia al punto che la sala di San Giovanni a Teduccio rappresenta ormai un punto di riferimento per chiunque, ambizioso – ma di un’ambizione non catilinaria, s’intende – o semplicemente curioso, voglia provare a gettare un dito furtivo nel cielo.
E, fino almeno a domenica 28 febbraio, le aspettative non saranno tradite: sull’assito va in scena uno spettacolo diverso, difforme, alterato sia rispetto al ritmo e al tono della quotidianeità della vita civile canonizzata che rispetto all’idea rituale che si ha comunemente del teatro; va in scena una piéce che non può essere classificata secondo il genere, che non ha intenzione di seguire chimerici messaggi ecumenici e che, quand’anche dice, nasconde dietro uno spesso velo di flemmatico sarcasmo il vero, il falso ed ogni parola possibile.
L’anarchico non è fotogenico, prodotto dalla compagnia Quotidiana.com, con in scena il riuscitissimo duo/non-duo Roberto Scappin e Paola Vannoni, primo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce (il secondo capitolo, Io muoio e tu mangi, andrà in scena sempre a Sala Ichos dal 4 al 6 marzo), non ha una trama e non ha personaggi, non insegna e non vuol farsi maestro di nulla; i due sul palco, in una scenografia che si caratterizza per sottrazione (un tavolo in primo piano, una sedia sul fondo, una lampada), abbigliati come cowboy urbani, dialogano seguendo le linee guida caratteristiche della compagnia riminese: la parola è tutto, ma è un tutto stanco, languido e inappagato, beffardo e “normale”, un tutto da bisbigliare perché non vale nulla, un tutto da ragionare perché può valere tutto.
Si potrebbe pensare a Montale, che in Non chiederci la parola affermava che “codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”; senonché anche una tale affermazione risulta essere troppo programmatica e troppo ardita: Scappin e Vannoni sono due sarcastici disillusi, due annoiati pensosi, il filo (il)logico inconcludente dei cui pensieri è costantemente teso tra le banalità di sempre e gli assoluti del pensiero. Una tensione senza alcun rilassamento, come ben rappresentano l’immoto scenario e il monotono periodare: si discetta sì di tutto, ma sempre con la stessa passiva e quasi inumana cadenza di verba; si sorride sinistramente per il proprio genio sarcastico, ma poi basta, non si cava sangue da una rapa, per quanto gustosa. Una tensione senza salvezza, perché “se uno è stronzo è stronzo. Una tensione che implode con l’estenuarsi dei temi da dibattere, i quali quasi mai trovano un esito solutorio e che, quand’anche vengano risolti da una pointe arguta e aguzza, in realtà non vengono sciolti che da soluzioni superficiali e formali.
L’anarchico non è fotogenico è un “a parte”.
Poiché inimmaginabile è la comunicazione vera (“Il nostro orrore rimane solo nostro“), e il dialogo non è altro che soliloquio a voce alta – e neanche poi così alta -, che ciascuno dice a sé, ma senza crederci poi più di tanto. Poiché  non c’è contatto tra i due in scena e nessun segno d’affetto è possibile: quand’anche le mani riescono a simulare un molle abbraccio, lo si fa senza slancio e senza esser ricambiati; non è possibile alcuna reciprocità e che “muoia” pure “la carità“, sentimento piccolo-borghese, inane espressione di una moralità malata.
E in questo “a parte” si consuma il piccolo, infinitesmo, inutile dramma degli esseri umani, imprigionati nella sciocca routine (“La stupidità mi soffoca“) e nell’indefinitezza senza senso: essi si agitano in modo insignificante tra il futuro e la diarrea, tra la morte dell’incipit (“Chi potrebbe morire“) e la morte della fine (“Poiché finché siamo vivi manchiamo di senso“), senza che nulla di davvero utile sia uscito fuori dalle loro teste, dalle loro bocche.
Tutto questo è vaniloquio. Ed è verità.

(Antonio Stornaiuolo, quartaparete, 27 febbraio 2016)

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PRIMI APPUNTI SU QUOTIDIANA.COM

Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo. 
Resterei muto;
e non direi perché.
E c’è un silenzio da far esplodere la terra.
Neanche una parola che abbia colpito;
si parla solamente nel sonno. 
E si sogna di un sole che rideva. 
Svanisce;
il dopo non ha più importanza. 
La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato. 
(Karl Kraus, Non si chieda)


Premessa
Sala Ichòs, confermandosi spazio che tenta di ospitare e proporre compagnie che fanno dell’innovazione del lessico teatrale la propria ragion d’essere, offre la possibilità di assistere – in giornata unica – alle prime due opere che compongono un trittico ancora incompleto, intitolato Tutto è bene quel che finisceL’anarchico non è fotogenicoIo muoio e tu mangi. Li considero perciò un tutt’uno di un progetto più ampio, ancora in via di definizione. 
In passato ho solo visto, in video, due dei tre spettacoli che compongono la Trilogia dell’inesistente e ne ho letto i testi, pubblicati da L’alboreto: incontro dunque e davvero per la prima volta i Quotidiana.com. 
Ne viene adesso questo diario d’appunti: una sorta di taccuino messo in pubblico, in cui ci sono approfondimenti dubbiosi e ragionamenti su qualche dettaglio più che la recensione della doppia messinscena. 
Così va, questa volta, in attesa del prossimo incontro e del terzo episodio.

Dialogo
“Cosa vuoi dialogare? Non c’è possibilità di capirsi su nulla. Si fa finta di dialogare, si annuisce, si è sempre più stanchi di ascoltarsi”. 
La mia sensazione è che alla base della scrittura e della presenza de i Quotidiana.com ci sia non la denuncia dell’insensatezza di lingua e linguaggio ma del dialogo: l’assurdo dialogo, l’impossibile dialogo verrebbe da scrivere parafrasando Samuel Beckett. Non è dunque l’atto in sé del parlare che diventa ridicolo ma è la possibilità d’essere davvero compresi a far perdere importanza al parlare. Mi senti ma non mi ascolti, ti arrivano le mie parole ma non riescono a destare in te nessuna attenzione né a provocare una reazione significativa e così – pur essendo l’uno di fronte all’altra – non siamo davvero in rapporto, non c’è alcuna relazione significativa tra noi. 
È tutt’altro che nuovo questo elemento, penso, perché il teatro – ovvero chi il teatro lo idea, lo compone, chi lo mette in scena e lo interpreta – da più di un secolo si confronta con la falsità (borghese, civile ed artistica) del dialogo, pratica che ci ostiniamo a ripetere senza che ci salvi dallo stato di isolamento che ci appartiene.
Così lo troviamo anche nelle opere che ci appaiono canoniche: tralascio il caso fin troppo noto di Čechov, nelle cui commedie non ci s’intende neanche sul clima, o quello volutamente teatralizzato di Beckett, che usa la modalità suggeritagli dagli sketch del circo o del cabaret, ma basti pensare a Eduardo che caratterizza non a caso la performance attorale di silenzi lunghissimi e che, via via che la sua carriera di drammaturgo prosegue, genera personaggi che rinunciano alla parola, pronti ad esprimersi ora con gli sguardi, ora solo a gesti, ora coi fuochi d’artificio. 
Inoltre questo rifiuto del dialogo è stato tra le ragioni di alcuni tentativi “d’avanguardia”, volti alla ricerca di un altro modo di dire dal dire, essendone lo strumento consueto – la voce, rivolta all’udito – ormai insignificante.

“L’ammutolire dell’arte” chiama questo fenomeno – nel suo complesso – Valentina Valentini, per cui si va dall’impiego delle immagini pittoriche alle composizioni di forme e colori, dalla vocalità ridotta a suoni onomatopeici all’afasia, col dramma che si riduce in un respiro o che viene espresso dal corpo che si muove nello spazio. 
Rispetto a tutto questo i Quotidiana.com non propongono il mutismo né si danno al nonsense ma usano invece una certa flemma ritmica, che sa di stanchezza. Dobbiamo continuare a parlare? E allora continuiamo pur sapendo che non serve a nulla. C’è dunque consapevolezza, c’è uno stato di inevitabilità – siamo ancora vivi, ci tocca ahimè ancora vivere – e c’è la spossatezza di dover adempiere a un rito senza significato, puramente formale. Per questo l’uso della catalogazione (esempio: “potrebbe morire…” e via un elenco di comportamenti, figure, stati d’animo, produzioni televisive commerciali, cattive pratiche individuali o collettive e festività da calendario); il reimpiego di formule retoriche (“dobbiamo assumerci le nostre responsabilità per il bene del Paese”) o di espressioni di maniera (“la vita mi soffoca”); il citazionismo (Non si chieda di Karl Kraus; il Dante dell’invocazione alla Vergine, Canto XXIII); per questo la digressione continua, per cui un discorso porta a un altro discorso che porta a un altro discorso ancora: se non ha senso e valore ciò che ci stiamo dicendo, d’altronde, perché seguire la linearità colloquiale? 
Che sia il dialogo l’epicentro (terremotato e dunque disabitato di senso) della drammaturgia dei Quotidiana.com me lo conferma d’altro canto un passaggio, che accade più volte. Lui dice: “Ti lascio sola con i tuoi pensieri” e va a sedersi, mimando una posa da siesta; Lei risponde: “Sono sempre sola con i miei pensieri” e, invece di tacere, fa emergere elementi di verità, dolorosi frammenti biografici, scorci di cose accadute che straziano, fanno male, che provocano pena: un padre malato, una madre non autosufficiente, il bagno occupato, l’umiliazione dell’anziano che non riesce a trattenere le feci. Capita così in L’anarchico non è fotogenico, capita anche in Io muoio e tu mangi: nel momento in cui – anche fisicamente – viene inscenata o si allude a una separazione Lei rende brevi immagini che, senza rinunciare alla flemma discorsiva, evocano istanti di umanissima decadenza: il padre in un letto d’ospedale, i suoi vaneggi improvvisi, il bisogno di essere accudito amorevolmente, la preghiera per avere un bicchiere d’acqua, il desiderio della mortadella o di un dolce che la malattia rende impossibile mangiare: “Il babbo stava lì, con due occhi sbarrati, che pensava alla cioccolata”. 
La condizione nella quale emergono brandelli di verità è dunque l’isolamento, l’intimità, la solitudine: “I dialoghi” – infatti dice Lei – “impediscono che mi arrivi aria nel cervello”.
Poi torna il discorrere futile, sulla base del “non capisci quello che dico”, tant’è che i due non s’intendono neanche su Rita Pavone (l’uno cita La partita di pallone, l’altra Viva la pappa col pomodoro), tant’è che – a una dichiarazione di vicinanza, di attenzione e d’affetto da parte di Lui – Lei non può che certificare: “Non c’è nulla di credibile in quello che hai detto”.

Corpo (e Teatro)
“andatura regolare, costante: sei chilometri all’ora. Siamo professionisti”.
I corpi di Roberto Scappin e Paola Vannoni disegnano lente partiture motorie: sembrano trascinarsi con la stessa fatica che appartiene al maratoneta che compie l’ultimo tratto non avendo che forza d’inerzia e nessuna altra direzione possibile. Spesso bilanciano la loro presenza – una a destra, l’altro a sinistra – dandosi il cambio; si allontanano ai lati per incontrarsi al centro; stazionano immobili per qualche secondo, in piedi o seduti. Compiono episodiche coreografie: siparietti in ribalta, brevi passi di danza, una gestualità minima ad accompagnare una frase, a rendere visibile una parola: così il piede destro viene alzato all’unisono; Lui la tocca e Lei dondola; Lui si piega in ginocchio alla frase “sonodemoralizzato” ed entrambi portano le mani giunte in preghiera quando alludono alle suore o le muovono quando dicono “evapora”. “Morirò prima io”, “chi l’ha detto?” diventa un indovinello col tocco, foulard (rigorosamente nero) stretto in pugno. Denunciano in questo modo la routine di sopravviversi ovvero di dover continuare ad esistere in attesa – chissà quando – della fine: “È solo un modo per rimandare” ammettono, sapendo che “tutto è bene quel che finisce”.
In questo atteggiamento non c’è rinuncia alla teatralità, come pure ho letto in qualche recensione, ma – al contrario – mi sembra ci sia il suo utilizzo dichiarato. Vengono nominati colleghi (Daniele Timpano); ci si interroga sulla funzionalità della messinscena (“attrazione che questo teatro può avere sulle folle?”, “pari a zero”); se ne smascherano gli elementi compositivi (“a questo punto ci vorrebbe un colpo di scena”, “mi è venuta in mente la trovata che spezza l’andamento malinconico”); si fa dimostrazione parlata di mise en abyme – cioè la collocazione in sequenza di un’espressione (“ho sognato di essere un cowboy che sognava di essere un cowboy”), si fa dichiarazione di poetica (“teatro senza spettacolo”) e se ne chiariscono gli obiettivi (“dire l’insensato della nostra condizione e solitudine” evitando “l’inquinamento visivo”), ci si rivolge alla platea, seppur raramente, ora interrogando il pubblico (“qualcuno lo sa rianimare?” quando Lui è steso a terra) ora usando la frontalità della posa, sguardo diretto agli spettatori. D’altro canto questa teatralità è dichiarata dalla (voluta, inevitabile?) povertà scenografica: nel momento in cui ci si muove in uno spazio arredato soltanto da qualche oggetto posto tra le pareti nude del teatro (un tavolo e una sedia per L’anarchico non è fotogenico; un drappo, una Madonna con Bambino a mezz’aria, un paio di sedie e una coppa per Io muoio e tu mangi) si rinuncia a far finta d’essere altrove: in ospedale o in salotto, in un qualsiasi altro ambiente che non sia l’ambiente in cui in effetti ci troviamo adesso: Sala Ichòs. 
È questo che permette di rappresentare “le linee progettuali di questo lavoro” con un foglio strappato in pezzetti; di fare di un telo bianco di volta in volta una “sindone”, un “gatto”, una “cena”, un “letto per le tenerezze” e una “blatta” (ovvero l’oggetto che funge da innesco discorsivo momentaneo) o di mimare l’apertura di una porta, cercando di riprodurne il cigolio, e l’entrata da una finestra, semplicemente disegnandone nell’aria il davanzale.

 

(Alessandro Toppi, ilpickwick.it, marzo 2016)

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‘Terreni Creativi’, il meglio del nostro teatro contemporaneo ad Albenga

Albenga – C’è la serra (non Yilmaz), ci sono le piante aromatiche che spargono nell’aria quel misto di casa e femmina, di verde e natura, di futuro. La formula dei Kronoteatro (leggi Maurizio Sguotti e i suoi tanti volenterosi ragazzi) risulta ancora vincente con un pubblico (trecento persone a serata) che affolla le vetrate e i campi con distese a perdita d’occhio di piccoli vasi e germogli a spuntare cercando il Sole. Pubblico vero, non di operatori, di quello che si fida e si affida, disposto a scommettere, a lasciarsi guidare ma anche a godere delle novità che gli vengono proposte. Se negli anni scorsi abbiamo visto qui i Teatro Sotterraneo o Gli OminiMarta Cuscunà oppure Angelo Romagnoli, per citarne soltanto alcuni, in questa edizione le scelte sono ricadute sui quotidiana.com (anche a Kilowatt e Calcata questa estate), Fibre Parallele e Sacchi di Sabbia. Come sempre il meglio del nostro teatro contemporaneo.
[…] A rinsaldare il rapporto tra pubblico e palco i riminesi Quotidiana che spingono il singolo prima ad un faccia a faccia personale con le proprie paure per poi liberarlo, scardinando le certezze, attraverso il loro azzeramento dialettico, la loro forma così antiteatrale, il loro distacco che li fa percepire talmente distanti dall’ordinario visto, in questa loro visione personale di intendere la scena, da creare prima una frattura, poi una repulsione, resistenza fino all’abbassamento di ogni difesa.
L’abbraccio, con questi due tipi che sul palco vergano le loro storie di freddezza e gelido, scatta all’improvviso con applausi a scena aperta, come lampi nel buio, o risate fuori fase deflagranti e grosse a riempire l’aria nera della notte. […]

(Tommaso Chimenti, IlFattoQuotidiano.it, 3 settembre 2015)

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recensione-l-anarchico-non-e-fotogenico_linus_ottobre2014

(Linus, ottobre 2014)

Catacombali o estroflessi: a chi parla il teatro?

Il bello di scrivere recensioni molto dopo, ossia passati giorni dall’evento scenico, è che le emozioni si sedimentano, decantano, si distillano. E vengono in mente altre cose.
Per me, che ho una memoria lasca, evanescente, emotiva, di uno spettacolo visto giorni e giorni prima restano infatti sensazioni curiose, quasi d’affetto, confusamente sentimentali. Posso ricordare benissimo degli aspetti marginali, degli stati d’animo, delle suggestioni visive.Invece rischio di dimenticare il quadro generale, la sequenza delle scene, i colori, le musiche. Poi, se qualcuno mi ricorda certi dettagli, dico: “ah sì, vero”.
Di fatto – e ce lo raccontano i grandi critici, non certo io – è come avere a che fare con le persone. La teoria di Flaiano era che ci possiamo innamorare di una donna per i suoi difetti, o magari possiamo detestarne un’altra con la sua perfezione: così è, diceva il genio pescarese, anche per gli spettacoli.  
Dunque in questi giorni ho visto cose superlative, altre medie, altre mediocri o proprio non riuscite. La cosa buona, che ci salva, è che ogni spettacolo, anche il più cialtrone, può farci pensare all’oggi, al nostro tempo, a quel che viviamo e a chi siamo. Apre gli occhi e stura le orecchie anche un malandato monologo recitato in una cantina, se coglie quell’istante in cui risponde, chissà come, alle nostre domande.
Tutto questo pistolotto introduttivo è per mettere a contatto due spettacoli visti ormai settimane fa: Thanks for Vaselina, di Carrozzeria Orfeo e L’anarchico non è fotogenico, primo capitolo di una trilogia dal titolo “Tutto è bene quel che finisce” di Quotidiana.com, ospitati nel sempre vivace (ma ormai ovviamente concluso) festival Teatri di Vetro di Roma.
Un festival, va detto, che quest’anno ha traslocato: se nelle precedenti edizioni animava il teatro Palladium nel quartiere Garbatella, ora che quel bellissimo spazio sembra sempre più chiuso, la regista e direttrice artistica Roberta Nicolai, con tutto lo staff di Teatri di Vetro ,ha trovato ospitalità nel teatro Vascello, a Monteverde, storica sala della ricerca teatrale italiana.
Allora, mi piace mettere sulla stessa bilancia i due lavori citati, ancorché diversissimi tra loro. […]  Diverso, si diceva, il percorso appartato di Quotidiana.com. Ho sempre amato, del duo riminese, l’iconoclastia, la scarna e caustica ferocia con cui dissacra tutto e tutti, per primi loro stessi. Roberto Scappin e Paola Vannoni riescono a essere simultaneamente fuori dal tempo e dal mondo, eppure profondamente calati in essi: non so dirlo meglio, ma spero si capisca la capacità che hanno di stare ai margini e osservare il centro. Un “centro” che evidentemente detestano: e che, nello spettacolo che prende spunto dalla “buona morte”, vorrebbero addirittura eliminare sistematicamente, in ogni sua declinazione, rimbalzandosi l’un l’altra le categorie che vorrebbero sterminare. A fronte di un sano e condivisibile spirito anarchico e finalmente anticlericale, Vannoni e Scappin cedono troppo nei piccoli rimandi metateatrali, nella cronaca spiccia, nel far nomi e cognomi di teatranti locali, mostrando un eccesso di inutile autoreferenzialità: è un giochino che può valere solo per gli addetti ai lavori, e che certo, per il pubblico di cui sopra, è totalmente privo di significato. Però resta in mente quello strampalato mondo di cowboy annoiati, di rivoluzionari immobili, in cui balletti posticci contrappuntano pose evidentemente scomode o innaturali. È tutto un sottrarre, un sussurrare appena, uno scartare ogni dichiarazione o presa di posizione, un negarsi il proprio ruolo: ma nell’incedere volutamente bradipo (non solo per i tempi e i toni), Quotidiana.com rischia di veder sfumare l’attenzione e l’adesione altrui.
Eppure vi è gusto rivendicativo di questo essere appartati anche quando si è al centro della scena. Catacombali come Claudio Morganti (ne abbiamo parlato a proposito del suo spettacolo a Prato), fuori dal “circuito” come è la bellissima e complessa Alcestipresentata da Massimiliano Civica a Firenze (ne parleremo presto: ma se potete intanto vedetelo!), il duo di Quotidiana.com ricorda un po’ quel “preferirei di no” di Bartleby.
Resta da capire quanto e come oggi, certe prese di posizione, possano essere effettivamente incisive: c’è qualcuno, in platea, che le ascolta senza essere già d’accordo?

 

(Andrea Porcheddu, 15/10/2014)

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Il Fa(i)r West dei Quotidiana.com in “L’anarchico non è fotogenico”

“Tutto è bene quel che finisce”
 è l’aforisma dissolvente che genera la seconda trilogia dei Quotidiana.com“Tre capitoli per una buona morte” (come recita il sottotitolo) finché morte non li separi; sono assieme dal 2003 Roberto Scappin e Paola Vannoni, uniti nella loro ricerca teatrale verso l’esplorazione dell’essere e del malessere sociali, a partire dal loro intimo vissuto di coppia.

A pochi anni dalla “Trilogia dell’inesistente”, arriva “L’anarchico non è fotogenico”, il primo capitolo della nuova produzione tutta improntata al miraggio di una buona morte in giusta vita. È morte a credito per tanti, forse per tutti, per i Quotidiana stessi sempre così familiari alla trattazione grottesca e a tratti filosofico-scientifica di temi liturgici come l’eutanasia, il suicidio, l’escatologia.
Siamo al teatro Vascello di Roma per Teatri di Vetro, lo storico festival delle arti sceniche e contemporanee. All’edizione numero 8 partecipano anche i Quotidiana e parte di qui la nuova traversata della scena contemporanea dei due attori in camicia bianca e cappello nero western.
Le pareti intorno al palco e al pubblico sono scure, quasi fuligginose; regna un’atmosfera di attesa ferale all’entrata in scena dei due cowboy subito accolti dal bisbiglio del pubblico che riconosce nelle loro sagome un’allarmante forma di umanità. Due cowboy in accoppiata danzante, senza pistola, con foulard di seta (uno nero e l’altro giallo), le camicie inamidate e il cappello di feltro sulla testa. Disarmati e senza bisonti al lazzo, questi due cowboy mostrano fibra dura, l’occhio di ghiaccio, la resistenza e l’ambizione di poter guidare un gregge allegorico lontano dalla minaccia dell’apatia, della remissione. Dello storico cowboy, hanno saputo ritrovare sempre la semplicità, il coraggio e lo spirito (specie in senso umoristico), un giorno forse la pistola arriverà.
Sono loro, teatranti western riminesi dai volti proditoriamente fotogenici (vedi gli autoscatti che accompagnano il duo nel nuovo tour), a condurci tra i numerosi quadri in scena, attraverso movimenti minimi e una mimica straordinariamente misurata. Il resto lo fanno i dialoghi soffusi, taglienti, sibilanti.
Tutto comincia in un abbozzo di balletto, parodia di leggeri stacchetti televisivi alla maniera di due Kessler annoiate e stanche. Si levano muti gli avambracci a sparare senza colpo ferire; in fondo alle braccia dei due, c’è solo l’asola della camicia bianca, nessuna canna a far “Bang bang” (canzone poi accennata nel mezzo della pièce).
Ma la raffica di colpi arriva subito dopo. Sono le domande, le allusioni (fedeli complici del dialogo domestico tra i due) a sparare nell’alto, nel basso e anche nel sottosuolo, dove lo scandaglio a doppia sonda va a scomodare la morte chiedendole con estrema calma chi potrebbe morire. Tante cose potrebbero morire allora: la bandiera rossa, la pazienza, il Natale, il carnevale, il sentimento ecumenico. “Ma chi è stronzo rimane stronzo, chi è coglione rimane coglione”, osserva la cowboy… Continua lui, “Potrebbe morire l’equitazione…” “O il fantino – aggiunge lei – così finalmente il cavallo sarebbe libero…” E così ancora, potrebbe morire la ricerca scientifica sugli animali (“Ma poi come ci curiamo dal cancro o dal Parkinson?”). Il Boia potrebbe morire (è l’unico che non si scompone), la povertà, la carità potrebbero morire… L’ignavia, lo sviluppo tecnologico arrogante, la flemma dell’operaio comunale, la dittatura dell’immagine compulsiva, la fiction di Rai Uno. Poi ancora, la perfezione dovrebbe morire, il sacerdotato, “I sacerdoti si devono impegnare a fondo, o eutanasia anche per loro…”. “La faccenda si fa lunga e priva di appeal”, commenta lei amara.
E il cowboy, dovrebbe morire? “Il cowboy è morto”, tornano a danzare i due fantasmi.
Si rasenta lo stereotipo di tante morti auspicate a furor di popolo, la faciloneria clownesca dell’invettiva di piazza, ma attenzione ai toni del discorso scenico, a non farsi ingannare dalle prime e più facili suggestioni. Non siamo davanti a due cowboy del circo equestre, siamo al lazzo di due cowboy fantasma, morti già alcune volte appesi alla forca della critica teatrale, della sua politica degli accessi. Qualcuno vada a leggere sul loro sito (www.quotidiana.com) o su alcuni blog circolanti che li riguardano, della crociata sul “Teatro assente” guidata dai due mandriani… Non ci si può attendere che dopo un tale affronto pubblico, sui due fuorilegge non penda una taglia di morte artistica o una condanna a vita all’esclusione dalle programmazioni più rassicuranti, forse più appaganti.
Allora calchiamo i neri cappelli e abbassata la tesa salmodiamo e balliamo con i Quotidiana la lunga ballata del disertore senza orpelli di scena. C’è una sedia, c’è un tavolo (con un’altra sedia) e dall’alto cala un faro alogeno che in ultimo dondolerà le sue ombre luciferine sul duo immobile al finale. È tutto. Tutto il resto è stato dialogo morbido vellutato, crudele o teneramente comico, dei due ragazzi delle mandrie, sorpresi ancora a parlarsi, interrogarsi, sfiorarsi le fosse iliache e le mani sulla piccola ribalta davanti a noi.
Non si riesce a stare al di qua della coppia nei lavori dei Quotidiana e non mancano neanche in questo lavoro riferimenti a un’affettività refrattaria, consolatoria, a un’intimità che possa certificarne l’esistenza in società, pur restando due cowboy e quindi duri, riluttanti alle smancerie amorose.
Dai movimenti sussultori delle mascelle dietro il vuoto delle pause, dai contenuti dei dialoghi volti alternatamente al paradosso e all’idillio, dalle ridotte geometrie di scena, si ritrova – ancora più forte in questo nuovo lavoro – uno stile affinato negli anni, scomodo per quanto efficace, dolce e rassicurante come tale può essere una morte che ponga fine a tante angosce quotidiane. Poco prima che l’alogena quarzina cominci ad oscillare come spada di Damocle discendente sulle loro teste, i due si parlano ancora: “È assolutamente necessario morire, perché finché siamo vivi, manchiamo di senso”.
Allora cosa deve vivere mi chiedo. Vivano i Quotidiana e le loro pistolettate di parole e frasari esilaranti. Finita la prova, un plotone di spettatori ha sepolto la coppia di applausi. Da sotto il tavolo in scena sono fuggiti a stento i libri della “Trilogia dell’inesistente” per i tipi di L’arboreto Edizioni. Qualcuno ne ha preso alcune copie lasciando un obolo sul palco.

 

(Michele Montanari, 9/10/2014)

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L’anarchico non è fotogenico e la buona morte
L’anarchico non è fotogenico, primo capitolo di Tutto è bene quel che finisce di quotidiana.com a Teatri di Vetro.

Credo ci sia il bisogno di partire da un assunto. Se si pensa come si guarda è psicologicamente necessario cambiare ogni tanto il punto di vista; vale la pena quindi, davanti alla profondità di un burrone, compiere l'(in)sano gesto di buttarcisi dentro, così una volta atterrati – se ancora si è tutti interi – si può alzare la testa e guardare dal basso verso l’alto quello che prima era un precipizio. Cambiare prospettiva. Prendiamo una secentesca commedia shakespeariana Tutto è bene quel che finisce bene, titolo talmente celebre da essere entrato nel novero dei modi di dire, frasi fatte e proverbi popolari. Elidiamo l’ultimo avverbio e ci accorgeremo come l’intero sillogismo, privato della sua chiosa serena, si connoti come un paradosso, acre, cinico e moralmente provocatorio. Cambiare prospettiva.
È dal 2003 che la compagnia quotidiana.com fondata da Roberto Scappin e Paola Vannoni ha deciso di mettersi “dall’altra parte” per osservare analiticamente il reale e incarnare quello sguardo spostato in “testi- gioco”, attraverso i quali fronteggiare gli spettatori tenendoli in scacco all’interno di labirinti linguistici dove faticano a trovare quel filo di Arianna che li condurrebbe alla fine. Tutto è bene quel che finisce – tre capitoli per una buona morteL’anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi e Lei è Gesù; autonomi e indipendenti momenti di riflessione sulla «centralità della parola» che possono tuttavia essere considerati come facenti parte di un’unica partitura drammaturgica, muovendo questioni alle categorie del presente che impone un solo e uniformante punto di vista.
Il primo dei tre capitoli è andato in scena al Teatro Vascello durante il festival Teatri di Vetro. Nella sala dove due sedie, un tavolo e una luce fanno di un buco nero una scena teatrale si inseriscono due figure, uomo e donna vestiti da cowboy. Imbastendo un dialogo flemmatico sull’assurdità logica dell’essere al mondo, si appropriano dello spazio misurandolo con una gestualità stanca ma precisa nella sua inerzia. Oscillano le parole prima in un dialogo, poi in un monologo e ancora in un soliloquio; l’altalena ipnotica di un enigma scenico che avviluppa fin da subito lo spettatore, ignaro che di lì a poco sarà messo al muro proprio da quella drammaturgia ludica che, se all’inizio stimola il riso, successivamente lascia sgomenti. Le parole corpose, dense della loro pronuncia, morbide nel poggiarsi sui fili del pensiero vengono inframezzate da pause e silenzi organici, per poter respirare prima di ricominciare… A cullarsi nella ninna nanna dell’eutanasia; l’ossimoro tabù ripudiato dalla morale cristiana e dalla politica ipocritica diventa ora una lente d’osservazione: non più cura ma accanimento, non esseri umani ma involucri di persone. Solo il sopraggiungere della buona fine e della buona morte potrà ridare finalmente dignità al dolore. La risata iniziale dello spettatore si smorza dunque in un ghigno amaro, mesto, che stenta a riaffiorare, a risollevarsi. L’anarchico non è fotogenico ribadisce la sua non appartenenza a dei modelli, rifuggendo da schemi precostituiti, non omologandosi a quella fotogenia dilagante che sfrutta immagini di uomini e donne riproducibili in serie.
Scappin e Vannoni non si parlano addosso – e badate si corre il rischio di pensarlo quando le parole cadono incessantemente e il loro senso è “pesante” tanto da non riuscire a sostenerlo – ma co-dialogano con chi è disposto a compiere quel salto nel vuoto per guardare giù. Cambiare prospettiva.

 

(Lucia Medri, 26/09/2014)

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Teatri di Vetro, magia ed emozione… Iperrealismi, Vannoni e Scappin

Ospiti regolari di Teatri di Vetro i riminesi Paola Vannoni e Roberto Scappin hanno presentato all’edizione numero 8 del Festival romano il primo capitolo della nuova trilogia Tutto è bene quel che finisce, i cui capitoli, come si legge nelle precise e divertite note di regia, sono concepiti sia come performance autonome, della durata ancora da definire, sia come un’unica partitura.
Come nei loro lavori precedenti la drammaturgia di Vannoni e Scappin, parte dall’analisi della parola intesa come generatrice di senso e come veicolo ideologico. Attraverso una recitazione antinaturalistica, pacata, sussurrata, flemmatica sino a sfiorare la ieraticità, Vannoni e Scappin mettono in evidenza le strutture interne delle parole come meccanismi di senso ricordando al pubblico la responsabilità a cui si è chiamati ogni volta che (si) parla. Dietro il luogo comune e il buon senso che sono due delle coordinate su cui si muove questo primo capitolo, L’anarchico non è fotogenico, si celano sempre scelte di campo, valori e priorità che si pretendono comuni e condivise e che Vannoni e Scappin mostrano con dialettica serrata nella loro inestricabile non neutralità, nel loro richiamare sempre a una scelta di campo, a uno schieramento, perché la neutralità linguistica, evidentemente, non esiste.
Lavoro difficile che il duo riminese riesce a compiere con un’enorme padronanza del mezzo espressivo, la lingua parlata e detta sulla scena, tanto da impiegarla per smascherare se stessa impiegando l'(auto)ironia come strumento per sottrarsi al rischio sempre esistente dell’autocelebrazione.
Il teatro di Vannoni e Scappin è politico in un senso nuovo per la scena italiana, un modo squisitamente teatrale, dato che il politico non emerge nei contenuti del discorso fatto ma nelle strutture stesse del discorso intrapreso del percorso drammaturgico che viene messo in scena a carte scoperte, senza trascurare mai il piacere di stare a teatro o di fare un teatro per il pubblico, dove la vera cortesia per il pubblico è proprio quella di non fare sconti ma (rap)presentare la realtà nell’unica maniera possibile: mostrandola così come appare da un punto di vista che non si pretende universale e proprio per questo più oggettivo di tante soggettività che pretendendosi comuni si autonominano universali.
La mancanza d’impegno, l’apparenza piena di una immagine che si fa tropo ambiguo in assenza e sostituzione di un discorso che non si sa più intraprendere, sono solo alcuni dei temi toccati in un testo serrato che alterna continuamente dialoghi a monologhi con una felicità inventiva, anche lessicale, che continua a sorprendere e a stimolare l’intelligenza del pubblico. […]

 

(Alessandro Paesano, 19/09/2014)

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Inciampando nel labirinto della noia, può capitare di cadere rovinosamente nei territori dell’apatia. La terza serata di Teatri di Vetro comincia proprio da qui, dal deserto dell’indolenza. Un palcoscenico che sembra una radura arida: non c’è vita, né rumore, neanche la classica palla di salsola che rotola nella piana desolata.
Niente, si ode soltanto un respiro fioco, o meglio, un sospiro: lo sbuffo svogliato di chi nonostante la stanchezza e la nausea si ritrova a vivere; e allora parla, ma piano, ché tanto è inutile accalorarsi: non cambierà nulla.

L’anarchico non è fotogenico è il primo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce, un titolo che sembra una lapide, eppure la frase è carica di caustica ironia, perché purtroppo neanche la fine è concessa: si tira avanti, rimasticando i pensieri come un boccone amaro e inutile di tabacco che non si potrà fare altro che sputare via più annoiati di prima. E i protagonisti di questa non-storia sono proprio due non-cowboy, con tutto il tramonto che il western si porta appresso. Roberto Scappin e Paola Vannoni procedono a una pacatissima rassegna di morti utili, stereotipi da cancellare, cliché da smontare, un’epurazione verbale di tutta quell’inutilità che si continua a portare avanti sospinti dal demone dell’abitudine. L’azione non procede perché non ci può essere appunto alcuna azione, tutto si condensa nell’esasperazione di un tempo morto che è la vita. Così anche i corpi dei due interpreti compiono movimenti ridicoli che scollati dal loro normale agire rivelano e confermano ancora una volta l’inerzia desolante del sopravviversi.

Alla logica ipocrita del progresso, dell’avanzamento o anche solo dell’aspettativa (di un pubblico o di prossimi) Quotidiana.com contrappongono la stasi, non tanto però come modello alternativo, ma quale riflesso cristallino e impietoso di una realtà che quotidianamente viene edulcorata e contrabbandata come autentica. […]

 

(Giulio Sonno, 17/09/2014)

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Sguardi da Castrovillari #2 – di Serena Terranova

 […] Portatori di una peculiare forma scenica sono anche i Quotidiana.com, che a Primavera dei Teatri hanno mostrato il primo capitolo della nuova trilogia dal titolo Tutto è bene quel che finisce. In questo spettacolo i due interpreti esordiscono interrogandosi sulle morti necessarie, quelle utili ai fini di un miglioramento sociale a cui si suppone aneli l’intera comunità – culturale, politica, sociale. Paola Vannoni e Roberto Scappin proseguono nella loro ricerca, fatta di ritmi ben scanditi e battute attentamente calibrate, un sapore cinico e surreale, un ostinato rimprovero al mondo circostante fatto a mezza voce ma spietatamente. Il loro teatro, che dagli esordi a oggi approfondisce uno spazio drammaturgico di combattimento, che mette in scena un simbolico duello tra attori e tra attori e pubblico, prova ora a rinnovarsi, introducendo di sottofondo al dialogo una muta coreografia che sa accentare i punti del discorso, innestando alle parole nuovi materiali, suoni, dettagli di costumi e aperti colpi di scena, ma soprattutto i due non guardano più solo il loro (e il nostro) fuori, ma provano ad andare all’interno di loro stessi, analizzando il loro stare nel teatro, rivelandosi nei propri confronti non meno lucidi che con “gli altri”, interrogandosi sulla propria «indifferenza affettiva senza scampo». […]

 

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A Castrovillari è di scena il teatro del tempo presente
L’alternativa è: 1)leggere i loro dialoghi nel volume Trilogia dellinesistente. Esercizi di condizione umana, pubblicato dall’Arboreto di Mondaino, oppure 2)assistere a uno dei loro spettacoli (il più recente, visto a Primavera dei Teatri a Castrovillari, intitolato L’anarchico non è fotogenico, è il primo capitolo di una nuova trilogia: Tutto è bene quel che finisce). Con buona pace di chi sostiene che il teatro è soltanto “qui e ora”, il risultato paradossalmente è lo stesso. Ipnotizza, nel lavoro dialogico di Paola Vannoni e Roberto Scappin (insieme si chiamano Quotidiana.com), la sublime flemmatica britannica indolenza che sulla pagina si dispone come un ping pong di battute brevi emergenti dal bianco, mentre in scena ha le sembianze di una coreografia rallentata, uscita dal freezer dell’umorismo cold & black, che potrebbe spingerci a leggere gli obituaries come menù di un ristorante. Lapsus dello spirito, dicono loro. È di morte che si parla in questo spettacolo. Perlomeno, la morte è il punto di partenza di questo minimalismo drammaturgico. Comprimere mastodontiche riflessioni etiche nei fumetti di una strip. Proprio come si fa per produrre diamanti sintetici. Il dialogo di Plotino e Porfirio («discorriamo insieme, riposatamente») in formato zip. Suicidio ed eutanasia, versione pocket. Affilatissimo pericoloso divertimento.

(Roberto Canziani, Hystrio n. 3/2014)

Primavera dei Teatri e l’ironia: Quotidiana.com, Punta Corsara, I Sacchi di Sabbia

Edizione numero quindici per uno dei festival più interessanti e accoglienti d’Italia, vero presidio culturale in una zona – il meridione d’Italia – ad alta (e interessante) densità teatrale dove però le occasioni festivaliere e di centri di produzione sono invece meno dense che altrove. È «Primavera dei Teatri», il festival di Castrovillari che tradizionalmente apre la stagione festivaliera radunando pubblico, operatori e artisti da molte parti d’Italia. Così è stato anche per questa edizione 2014, ideata e diretta dalla compagnia Scena Verticale che nelle figure dei direttori artistici – Saverio La Ruina e Dario De Luca – e della compagine organizzativa capitanata da Settimio Pisano esprimono sempre una grande cura e uno sguardo acuto sul presente artistico.
La linea che ha attraversato la programmazione del festival, almeno nelle sue ultime tre giornate, sembra essere quella dell’ironia e della comicità. Pur con temperature e obiettivi drammaturgici radicalmente diversi, sembra che una tensione innervi gli spettacoli in scena a Castrovillari ed è quello di un dialogo con il pubblico che segua l’onda dell’empatia (quella del pensiero, non quella della seduzione facile della risata). I più radicali e corrosivi sono senza dubbio i riminesi Quotidiana.com, che aprono le danze di una nuova trilogia: dopo quella dell’«Inesistente», raccolta in volume dalle edizioni dell’Arboreto, anche stavolta il titolo è tutto un programma (e quasi un manifesto): «Tutto è bene quel che finisce». Il primo capitolo, quello che vediamo, si intitola «L’anarchico non è fotogenico», e si apre con una serie di “morti auspicabili” che segna da subito in modo caustico e politicamente scorretto l’andamento dello spettacolo. Che non è diverso, nella formula, dai precedenti tre lavori di Roberto Scappin e Paola Vannoni; ma nella finezza drammaturgica, nell’ironia tutta appuntita delle drammaturgie di questo duo riminese si cela un’alchimia potente, che va oltre la ripetitività dello schema di messa in scena. Perché il centro del discorso è vistosamente oltre: nel testo, nell’analisi impietosa – per loro stessi e per noi che li stiamo ad ascoltare – e sempre “scorretta” delle miserie del contemporaneo, siano esse artistiche o umane.
Bizzarra – ma sempre di matrice causticamente surreale – la scelta di intervallare i discorsi affilati, che Paola e Roberto snocciolano in scena con la lentezza dell’esasperato senza orizzonte di redenzione, con diverse coreografie robotiche e legnose, buffe quanto improbabili, che fanno da contraltare alla declamazione monocorde delle parole (ma lo è davvero? piuttosto un aspetto importante degli spettacoli di Quotidiana.com è la capacità di un’orchestrazione di variazioni minimali, capaci di scatenare all’improvviso una comicità dirompente). […]

 

(Graziano Graziani, 09/06/2014)
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A dispetto della pluralità dei linguaggi che si è imposta in questi anni, il programma di “Primavera dei Teatri “ – la vivace rassegna di Castrovillari, che apre la stagione dei Festival – è stato caratterizzato soprattutto dalla scrittura nelle sue varie forme,  con alti e bassi che ben riflettono  il momento di incertezza della scena contemporanea. […] Un fenomeno a sé sono anche i Quotidiana.com, ovvero i bravissimi Paola Vannoni e Roberto Scappin, coi loro surreali dialoghi pseudo-filosofici, coi loro stralunati interrogativi esistenziali, domande astruse che ricevono risposte paradossalmente acute, domande acute che ricevono risposte astruse. È una sofisticata clownerie intellettuale, un gioco verbale alle soglie dell’assurdo, ingabbiato in una dizione volutamente sottotono, pigra, assente. In questo nuovo lavoro, L’anarchico non è fotogenico, incongruamente vestiti da cow-boy riflettono a modo loro sulla morte, alternando battutacce a intuizioni folgoranti: morire, ad esempio, è necessario, perché «finché siamo vivi manchiamo di senso». […]

 

(Renato Palazzi, 08/06/2014)
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XV Edizione di Primavera dei Teatri – Castrovillari

[…] Hanno lasciato il segno Roberto Scappin e Paola Vannoni, pure registi e autori di Tutto è bene quel finisce. Uno spettacolo in cui la coppia, agghindata da cow-boy con relativo cappello in testa e fazzoletto al collo, per 60 minuti spara e sciorina in stile English un’infinità di calembour e di luoghi comuni ricchi di nonsense. Come tutte quelle cose che potrebbero morire: dalla bandiera rossa al Natale, dalla flemma degli operai comunali alle colorate guardie svizzere, non però le suore perché sono state un’eccellente scuola di ateismo. “E che differenza c’è tra Teatro e Spettacolo? Per fare Teatro bastano anche uno o due coglioni che parlano, per lo Spettacolo ci vuole un Tir, facchini e tutto quel segue. E noi che facciamo? Teatro. Perché? Perché non vogliamo guidare un Tir”. I due bravi protagonisti riminesi si muovono sulla scena con fare bislacco, al ralenti quasi, e qualunque argomento trattino ( politica, società, mass-media, sport etc..) è sempre visto con un’angolazione surreale, dando così motivo di far emergere una realtà squallida, degradata, inquinata, diventando così motivo di ilarità e divertimento mentale per il pubblico. Lo spettacolo pare che avrà un seguito visto che dei “tre capitoli per una buona morte” – si legge nel titolo- questo è il “Capitolo Uno” ed è incentrato su “L’anarchico non è fotogenico”. Chi vivrà vedrà. […]

 

(Gigi Giacobbe, 05/06/2014)
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IL TEATRO QUOTIDIANO
Al Festival di Castrovillari la condizione umana oggi

[…] Due esperienze contrapposte sia linguisticamente che teatralmente sono quelle di Quotidiana.com e di Punta Corsara. Tutto è bene quel che finisce del duo riminese, dove si confrontano i due autori Roberto Scappin e Paola Vannoni, è un sofisticato, surreale gioco all’ultimo colpo di pistola, all’ultimo passo di danza, per raccontarci la morte e la bellezza, il pensiero e lo stomaco, la follia e il buon senso. Quasi un esercizio di straniamento che ti prende in contropiede. […]


(Maria Grazia Gregori, L’Unità, 03/06/2014)

La fine non è il mio inizio

CASTROVILLARI – La protesta è in atto. E da diverso tempo. Le frasi sono taglienti, come sempre, l’ironia non è borghese. Non c’è più tempo da perdere, non hanno più tempo da perdere. Per questo sono più liberi che mai, di dire, fare, senza baciare, ma facendo lettera (scarlatta) e testamento (senza eredi). In definitiva i Quotidiana.com(non ci stancheremo mai di sottolineare l’illuminazione che ogni volta dona il nome, così dentro i tempi ma anche così maledettamente ossimorico tra la realtà del reale e l’iperespansione illusoria del virtuale) portano in scena sempre lo stesso spettacolo (nel filo dei recenti “Tragedia tutta esteriore” a “Sembra ma non soffro” fino a “Grattati e vinci”, finalmente pubblicati nel volume “Trilogia dell’Inesistente”, L’arboreto edizioni). O una sua concatenazione. Riflessioni in successione, a scansione, ad emissione di gas, a catena di montaggio, a valanga nel loro ultimo “L’anarchico non è fotogenico”, primo capitolo della nuova trilogia “Tutto è bene quel che finisce”, sempre drastici e caustici.

C’è del pensiero in quel di Rimini. Freddi come cow boy, uno davanti all’altro si sparano pallottole lentissime che vanno comunque a colpire il bersaglio. Qui non ci si scansa ma si apre il petto per l’impatto. Che la fuga è dei mediocri. Ma non si può parlare nemmeno di coraggio, che sarebbe troppo militaresco e guerreggiante e guerrafondaio e destrorso. Qui la Resistenza ha fatto il giro di boa: non è più passiva gandhiana ma nemmeno alla baionetta impugnata contro il nemico. Quest’ultimo si combatte regalandogli il disagio nel vederci ancora solerti e per niente abbattuti né arrabbiati molesti, si combatte con lo stare ancora, con l’esserci, anno dopo anno, a vegliare, più che vigilare o controllare, che dovrebbe essere roba da giornalisti, quando fanno il loro mestiere.

I Quotidiana (Roberto Scappin dà i ritmi, Paola Vannoni le stoccate sferzanti) hanno i pantaloni neri, perché con le gambe, come tutti noi, stanno ben piantati nel fango dell’oggi che sporca ogni passo in quest’incedere per non cadere a pelle di leone, e la camicia bianca, i polmoni, il respiro, lo stomaco, il cuore puliti pronti a scavalcare, a correre, a pulsare di nuovo. Il bianco e il nero, il bene e il male, trasversalmente. Vagamente bergonzoniani, riescono ad alleggerire la tragicità dell’esistenza, a sdrammatizzare il quieto vivere, ad appesantire di profondità in 3D le amenità frivole comuni dell’essere umano di sinistra, quello che si sente più vicino al celestiale perdono per i suoi peccati terreni. Il sarcasmo è sottile, ma attenzione, è un gancio, un amo per condurci nel loro british, politicamente scorretto (finalmente in questo mondo marchiato di insano buonismo), in quella lenta pensosità che snerva e sfibra l’avversario.

La staticità viene interrotta da piccole coreografie, sinossi schematizzate di gesti ed attimi consueti, quelli in cui ci sentiamo, ci inventiamo, di essere felici. La loro è una cantilena senza scarti, monocorde, come lo è la vita nella sua scarnezza, nella sua essenzialità, ripulendola da falsi miti ed obblighi, bisogni indotti e certezze vane. Qui tutto sta crollando, ce lo dicono piano, non come sciabolata urlante che allerta ma come coltello che entra piano nell’intestino mentre l’assassino guarda negli occhi la vittima esterrefatta ordinandogli dolcemente il silenzio. Il rigore dell’impotenza, dopo l’iniziale divertito riso, ha il sapore di ferro e malinconia nella secchezza delle schermaglie verbali.


C’è amarezza nelle loro parole, che parlano di fine, ma non infelicità, un non-sense, mai demenziale e fintamente piatto, di fondo che assume significati sempre nuovi, apre finestre alle idee donchisciottiane, continuamente sconfitte e perdenti e proprio per questo invincibili, inafferrabili ed indomite. Non li compri i Quotidiana. Le loro pause celentanesche, i loro silenzi che dovrebbero allarmare sono eloquenti. La loro retorica è la flemma, la loro dialettica un gioco-meccanismo che ti obbliga a mettere in moto i neuroni che si erano nascosti dietro l’ennesimo spritz. Teatro politico nel senso più alto, e nobile, della definizione.

(Tommaso Chimenti, 02/06/2014)
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La prima provocazione proviene dal titolo, che interrompe in maniera inedita una delle tante frasi fatte della nostra lingua: “Tutto è bene quel che finisce”. Il progetto ideato e presentato da Paola Vannoni e Roberto Scappin (di quotidiana.com) si ritaglia uno spazio proprio all’interno di Primavera dei Teatri – presentando il primo capitolo (“L’anarchico non è fotogenico”) di una trilogia “per una buona morte”.
Un dialogo ostinatamente flemmatico, accompagnato da movimenti ripetitivi, quasi una coreografia descrittiva che ha come sfondo la monotonia (e prevedibilità) del vivere. Ironia, domande sul nostro tempo e l’eutanasia in senso lato, come soluzione proposta, come necessità. La cifra di questo spettacolo è la stanchezza: un sussurrare di provocazioni e inquietudini celate dietro la maschera dell’ironia.
Due antieroi paradossali, cowboy in camicia bianca, dialogano del presente, rompendo la quarta parete della finzione teatrale. L’urgenza delle proposte sollevate contrasta con il tono vinto, rassegnato, in cui vengono esposte: la voglia sotterranea è quella di ribaltare le convinzioni stagnanti del nostro tempo, come l’idea di virtù o quella di onestà; il che è possibile solo accettando l’idea della morte come positiva, in quanto irrimediabile e necessaria al cambiamento.
Un cinismo sottile permea il rapporto tra i due, due solitudini vicine (“ti lascio sola con i tuoi pensieri”-“sono sempre sola con i miei pensieri”), e anche il loro rapportarsi sul palco ci parla di incomunicabilità, dell’impossibilita di un vero contatto tra gli uomini, relegato a gesti omologati e privi di senso.
“L’anarchico non è fotogenico”, non fa notizia, in una società in cui fa comodo avere delle certezze irremovibili, che siano le fiction della Rai o la scorrettezza del rubare cioccolatini in un bar. E invece tutte queste inutili certezze dovrebbero finalmente morire: fatto il loro corso dovrebbero lasciar spazio al nuovo, e noi prima di tutto dovremmo lasciarle morire, come natura vuole, senza accanirci a tenerle in vita. 
L’arma della risata sardonica è usata con destrezza per sollevare questioni profonde, anche in merito al ruolo del teatro stesso, anzi, dello stesso spettacolo, nei confronti della percezione e delle aspettative del pubblico.
Opinioni scomode, risposte scomode, persino le forme della performance sono scomode, quasi ad incoraggiare l’eutanasia di tutte quelle comodità che stanno facendo marcire la nostra società.

 

(Sabrina Fasanella, 01/06/2014)
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